Chiesa di San Domenico – Città di Castello (PG)
Cenni storici
L’imponente chiesa venne costruita per volere dell’ordine domenicano nei primi tre decenni del Quattrocento.
I lavori furono condotti dal 1399 ad 1424 anno in cui venne traslato all’interno dell’edificio il corpo della Beata Margherita della Metola due anni dopo la solenne dedicazione.
La consacrazione dell’edificio avvenne nel 1426 ed è a ridosso di quegli anni che risalgono le pregevoli testimonianze dell’apparato decorativo.
Nel corso dei secoli furono numerosi gli interventi che la chiesa conobbe, come testimonia la struttura muraria esterna.
Nel 1724, in occasione dell’elezione a Papa del domenicano Benedetto XIII, la chiesa subì alcuni interventi che le conferirono un pesante stile barocco; queste sovrastrutture furono eliminate negli anni 1912-1920 grazie ad alcuni lavori che portarono alla luce numerosi resti di affreschi.
Aspetto esterno
Imponente e severa costruzione che colpisce per le sue dimensioni, presenta un’ampia struttura ad unica navata, con copertura a travature scoperte, ha coro a croce e con una zona absidale e del coro divisa in tre arcate a sesto acuto e delineate da vetrate policrome.
La facciata è incompiuta, sul fianco sinistro si trova la quadrata torre campanaria e il portale a ogiva che nonostante le trasformazioni subite costituisce una preziosa testimonianza delle maestranze operanti in città nel Trecento.
Il portale principale è il più recente ed è rimasto incompiuto; quello laterale di forma gotica è del ‘400 e presenta nella lunetta un affresco raffigurante la “Vergine e il Bambino con San Domenico e Beata Margherita“, dipinto rovinato dal tempo.
Interno
La chiesa ha una sola navata a copertura a tetto; il coro, coperto da volte a crociera, è preceduto da tre archi trionfali e poggianti su pilastri poligoni.
La chiesa conserva numerosi affreschi quattrocenteschi, in gran parte frammentari e restaurati a partire dal 1911, quando imponenti lavori liberarono l’edificio da sovrastrutture barocche e settecentesche.
Lungo la parete sinistra, accanto al portone, si trova “S. Antonio Abate“(1426), seduto su un trono, di Antonio di Guido da Ferrara conosciuto anche come Antonio Alberti.
L’affresco di San Domenico si può senza dubbio considerare una delle prove migliori dell’artista di origine ferrarese ma ben radicato a Urbino a partire dalla fine del secondo decennio del Quattrocento. Nella capitale del Montefeltro egli si inserì nella grande stagione del tardo gotico locale che vide protagonista anche i fratelli Salimbeni e Ottaviano Nelli.
Antonio di Guido da Ferrara ebbe un rapporto speciale con Città di Castello, dove lavorò in più di un’occasione, come noto sia dai documenti sia dalle opere giunte fino a noi.
La figura monumentale del santo seduto su un imponente trono marmoreo fu realizzata in corrispondenza di uno degli antichi altari della chiesa di San Domenico.
Sant’Antonio assai caro alla devozione popolare è circondato da alcuni episodi della sua vita, che grazie al pennello del pittore divengono un vivace spaccato sulla vita quotidiana e sui costumi del tempo.
Sempre su questo lato si vede una “Natività“, con a fianco delle figure della Trinità e di Santa Mustiola.
Al cospetto della Natività siede in preghiera santa Margherita di Città di Castello, documento iconografico del culto ormai consolidato per la venerabile cieca della Metola.
La pulitura della superficie pittorica ha reso maggiormente visibili i tre raggi d’oro che congiungono il cuore di Margherita alle bocche di Gesù Bambino, della Madonna e di San Giuseppe, simbolo dell’accesa devozione della Santa per la Sacra Famiglia.
Secondo i racconti agiografici alla morte della santa furono ritrova nel suo cuore tre sassi con le immagini dei componenti della Sacra Famiglia, nell’opera rievoca dalla presenza dei personaggi stessi.
Questo secondo affresco venne realizzato da un artista locale, molto attivo a Città di Castello e dintorni tra la fine del Trecento e i primi decenni del Quattrocento, che in San Domenico intervenne a più riprese nella chiesa e in altri ambienti del convento.
Segue poi “S. Caterina che riceve Stimante” ed alcune figure di Santi.
Nella parete di fronte si possono ammirare, a partire dall’ingresso: una “Madonna” di C. Gherardi, affresco staccato nel 1917, tre strati di affreschi raffiguranti la “Vergine che allatta il Bambino” e l'”Annunciazione” in quello più antico, ” L’Eterno Padre con quattro Angeli” e “un domenicano che predica” in quello intermedio, “la Crocifissione” in quello più recente, opera attribuita a Antonio Alberti.
L’attigua cappella dedicata ai caduti di guerra all’inizio di questo secolo, conserva un affresco trecentesco il “Crocifisso tra la Vergine e San Giovanni” di fattura ispirata a scuola senese.
La cappella vicina, del SS. Sacramento, accoglie affreschi con “Storie di S. Antonio Abate“.
All’estremità della navata, i due altari rinascimentali custodivano due autentici capolavori, quello a destra la Crocifissione di Raffaello, dipinta attorno al 1503 per conto della famiglia Gavari, oggi alla National Gallery di Londra, e quello a sinistra il Martirio di San Sebastiano di Luca Signorelli, realizzato nel 1495 per la famiglia Brozzi e attualmente conservato nella Pinacoteca Comunale.
L’altare maggiore della chiesa conserva il corpo della Beata Margherita (1287-1320), terziaria domenicana, detta la Cieca della Metola, dal luogo in cui nacque e beatificata il 18 novembre 1609.
Nell’abside è collocato un coro ligneo con 26 stalli in doppia fila realizzato nel 1453 dal fiorentino Manno di Benincasa detto Manno dei Cori.
La Sacrestia è dotata di porte intagliate e di armadi settecenteschi.
Crocifissione con due angeli la Madonna e i Santi Gerolamo Maddalena e Giovanni Evangelista – Raffaello
La tavola, dipinta per la cappella Gavari in S. Domenico a Città di Castello, vi rimase per tre secoli fino a quando venne acquistata da un francese per quattromila scudi.
In seguito fece parte della collezione Fesch (1818) e di quella del principe di Canino (1845); dopo essere passata attraverso varie raccolte inglesi giunse alla collezione Mond e nel 1942 alla sede odierna (National Gallery di Londra).
La tavola, firmata ai piedi della croce, in lettere d’oro, “RAPHAEL URBINAS P.“, venne probabilmente iniziata nel 1502 e terminata nel 1503.
Il Magherini-Graziani lesse quest’ultima data sul gradino dell’altare nel quale la tavola si trovava.
E’ un’opera completamente influenzata dal Perugino (vedi in particolare le figure dei quattro santi), tanto che lo stesso Vasari afferma che “se non vi fosse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe di Raffaello, ma bensì di Pietro“.
Alla tavola il Gronau (1909) collegò due scomparti di predella: uno raffigurante S. Gerolamo che risuscita tre morti (Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga), l’altro con un miracolo di S. Gerolamo (già a Richmond, coll. Cook).
Il primo scomparto era stato attribuito dal Passavant al Perugino e dal Cavalcaselle a Raffaello giovane.
La Brizio vede nei due scomparti alcuni progressi rispetto ai moduli perugineschi.
Chiostro
Nell’attiguo ex convento sorge il chiostro, recentemente acquisito dal Comune di Città di Castello, costituto da due esili colonne che sorreggono archi, doppi nell’ordine superiore.
Terminato tra il 1662 e il 1667, nella parte bassa furono ricavate 32 lunette dipinte da Salvatore Castellucci di Arezzo, discepolo di Pietro da Cortona, con storie di Beata Margherita, ai lati delle quali si trova una doppia didascalia in latino ed in volgare.
Sotto le arcate inferiori si aprono due trifore che con la porta trilobata danno luce alla cosiddetta “sala capitolare” domenicana.
Beata Margherita da Metola
Nacque da nobili genitori (Parisio ed Emilia) nel castello di Metola nella Massa Trabaria (oggi Mercatello del Metauro nella provincia di Pesaro Urbino), presumibilmente alla fine degli anni Ottanta del Duecento.
Margherita nacque cieca e deforme e a motivo di ciò il padre le avrebbe costruito una cella presso la chiesa del castello per nasconderla alla vista.
Fin dai sette anni la fanciulla avrebbe iniziato una vita di penitenza con digiuni e cilicio.
Nella speranza di un miracolo i genitori la portarono a Città di Castello, al sepolcro di un pio frate minore morto da poco (forse il beato Giacomo), ma il miracolo non avvenne e Margherita fu dai genitori stessi abbandonata in quella città.
Visse girovagando e mendicando il vitto fino a quando fu accolta nel “monasteriolum di S. Margherita” attivo nella città almeno dal 1287, da cui fu in seguito espulsa.
Margherita trovò quindi un approdo nella casa dei coniugi Venturino e Grigia, dove si cominciò ad attribuirle miracoli e dove visse in orazione e praticando forme penitenziali come la disciplina. Portava l’abito dei frati predicatori e frequentava la loro chiesa.
Le si attribuivano levitazioni e la visione di Cristo incarnato al momento dell’elevazione.
Morì nella casa di Venturino e Grigia, munita dei sacramenti a lei impartiti dai frati domenicani, il 13 aprile. 1320.
Il corpo, con grande concorso di popolo, fu traslato nella chiesa dei predicatori, dove fu trattato con aromi offerti dai rettori della città per l’imbalsamazione.
Nel cuore di Margherita vennero identificate tre pietre con immagini riferite alla Natività e allo Spirito Santo.
I miracoli a lei attribuiti post mortem consistettero nel fugare demoni, sanare infermità, resuscitare defunti; il redattore della minor aggiunge tre guarigioni miracolose di animali.
La figura di Margherita bene s’inquadra in quella schiera di nuovi santi locali, sostenuti anche dal sentimento civico proprio dell’età comunale, “assorbiti” dagli ordini mendicanti, nel caso specifico dall’Ordine dei predicatori.
Anch’essi si preoccuparono di proporre modelli di donne affiliate al loro Ordine, ciò che soprattutto maturò sul calare del Trecento e agli inizi del Quattrocento, quando si affermò il fermento dell’Osservanza pure in ambito domenicano.
Il culto e la devozione per Margherita si imposero con l’avanzare del Trecento.
Nel 1395 a Città di Castello il culto e la devozione per la beata dovevano essere già stati istituzionalizzati, poiché si trova l’esplicita menzione della “festivitas et obstensio corporis beate Margarite”.
Nel 1422 il Comune di Città di Castello stabilì che ogni anno nel giorno della festa della beata – le cui reliquie si conservano e si venerano nella chiesa di S. Domenico – fosse offerto un doppiere di cera.
Da questa epoca il culto per la beata è sempre più intensamente documentato.
Nel 1604, per esempio, Clemente VIII concesse indulgenza a quanti avessero visitato la chiesa di S. Domenico, dove era conservato il corpo di Margherita, il 1° maggio, giorno della celebrazione della festa.
Il culto fu autorizzato da Paolo V nel 1609.
Negli anni Sessanta del Seicento le lunette del chiostro del convento domenicano tifernate furono illustrate con scene di vita e di miracoli di Margherita, il cui corpo, nel 1678, fu collocato, in una urna nell’altare maggiore della chiesa di S. Domenico.
Per il suo essere cieca e deforme Margherita è divenuta punto di riferimento devozionale per portatori di handicap: così tra gli anni 1919 e 1920 è stato fondato, su iniziativa del canonico Giacinto Faeti, l’Istituto per cieche a lei intitolato; anche in tempi recenti si sono organizzati pellegrinaggi di persone disabili alla tomba della beata.
Nel 1988 il locale Vescovo di Urbino e Città di Castello l’ha proclamata Patrona Diocesana dei non vedenti.
Nel 2004 è stata depositata presso la Congregazione delle cause dei santi la documentazione per l’eventuale canonizzazione.
Attualmente la festa è celebrata il 13 aprile.
Fonti documentative
http://www.cittadicastelloturismo.it/
https://www.paesionline.it/
http://www.treccani.it/
Cartellonistica in loco