Castello di Montemonaco (AP)
Cenni Storici
Le prime indagini storiche su Montemonaco condotte nella prima metà del Novecento da Augusto Vittori fanno risalire l’origine del toponimo ad un nucleo di monaci benedettini stabilitosi in questo piccolo altopiano sin dall’VIII secolo.
L’incastellamento e la costituzione in libero comune avvenne nel XIII secolo dopo che si era notevolmente indebolita l’autorità dei Nobili di Monte Passillo e degli altri signorotti locali.
Fu allora che i montemonachesi costruirono le alte mura in pietra intervallate da torrioni, che sin d’allora resero Montemonaco indipendente e fiera nel respingere gli attacchi dei vicini Comuni di Norcia, Montefortino, Amandola, Arquata del Tronto e persino di Francesco Sforza e di Niccolò Piccinino ai quali, a dispetto di Amandola e Montefortino che nelle diverse occasioni erano state sempre conquistate, riuscirono ad imporre patti di reciproca convenienza.
È con il 1545 che si ha finalmente la codifica degli statuti comunali sulla scorta delle antiche usanze e riadattando i precetti di San Benedetto, su cui si era probabilmente formata la civitas medievale.
Talmente orgogliosa delle proprie tradizioni, che la vedevano sin dal X secolo aggregata alla diocesi di Fermo e al Presidiato Farfense, recalcitrò non poco nel piegarsi, obtorto collo, al potente Papa montaltese Sisto V che l’aggregò, in spiritualibus alla diocesi di Montalto, da lui appena creata, nel 1586.
Nei secoli successivi il territorio di Montemonaco perse via via la sua importanza strategica che l’aveva qualificato, sin dal Medioevo, un particolare snodo viario al centro degli intensi traffici lungo la viabilità nord/sud del versante adriatico della penisola.
La storia di Montemonaco tuttavia, al di là dei poteri costituiti che nel tempo ne hanno segnato le vicende civili è stata influenzata, fin dall’epoca pagana, dalla presenza dell’icona della Sibilla Appenninica e della sua mitica Grotta.
Una presenza dai molteplici riflessi e con la quale la piccola comunità, amministrata dal potere centrale della Chiesa, nel corso della sua storia ha vissuto momenti di non sempre facile convivenza.
Fra storia e leggenda
Terra di antiche frequentazioni, accoglieva stabilmente sin dal tardo Medioevo genti provenienti da terre lontane.
Attratte dalla liberalità e dall’insofferenza ai poteri costituiti dei montemonachesi alcune frange ereticali come i Fraticelli Michelisti, i Clareni, i Sacconi, i seguaci dei Cavalieri templari ed altri eretici scappati da stati o città meno tolleranti, si riversarono sin dal XIV secolo nelle più sicure terre montane del territorio di Montemonaco e dei comuni limitrofi.
Altri decisero di attraversare il Mare Adriatico e si stabilirono in Dalmazia o in Grecia.
Fra gli accadimenti del XV secolo, che contribuiranno ulteriormente, nei secoli successivi, a far conoscere Montemonaco ben oltre il suo naturale ambito geografico, ve ne sono di significativi almeno due: da una parte la venuta in queste terre dello scudiero francese Antoine de La Sale al servizio della Duca Luigi III d’Angiò nel maggio 1420 dall’altra la pubblicazione nel 1473 del Romanzo di Andrea da Barberino, Guerrino detto meschino.
Entrambi gli avvenimenti si muovono sullo sfondo della leggenda della Sibilla Appenninica e il complesso ipogeo della sua Grotta, ricompreso sin dall’antico nel territorio montemonachese.
Ma mentre nel romanzo di Andrea da Berberino, Montemonaco è citata marginalmente in una trama letteraria tutta incentrata sulla leggenda della Sibilla Appenninica e della sua mitica grotta, il diario autoptico di Antoine de La Sale (quel che dirà di vedere o di ascoltare dalla viva voce dei Montemonachesi, lo annoterà riportandolo nel racconto intitolato Le Paradis de la Reine Sibylle, la cui prima versione manoscritta è conservata alla biblioteca del museo Condé, castello di Chantilly, poi inserito nella sua summa pedagogica, La Salade, destinata all’istruzione di Jean d’Anjou, figlio del re Renato (René d’Anjou) è storicamente interessante come primo indiretto tentativo di cui si abbia notizia volto a laicizzare la leggenda della Sibilla all’inizio della Rinascenza.
La fama della Sibilla Appenninica doveva aver raggiunto la Borgogna se la Duchessa Agnese, sorella di Filippo Il Buono, pare avesse un arazzo nel suo castello con la rappresentazione della grotta della Sibilla.
La Sale vide l’arazzo proprio nel castello di Angers, nel 1437, in occasione della festa di nozze della figlia di lei, Maria di Borbone, col figlio di Renato d’Angiò, e, constatando che la raffigurazione dei luoghi non corrispondeva al vero, decise di narrarle il viaggio, compiuto 17 anni prima, e tutto ciò che aveva visto e udito.
Fra le motivazioni che avrebbero spinto La Sale ad intraprendere il viaggio Detlev Kraack individua quello dell’onore: tuttavia, non fu inviato dalla dama stessa sui monti della Sibilla.
La Sale viaggiava già da tempo in Italia, al seguito dei duchi d’Angiò, Luigi II e Luigi III, prima, il re Renato poi.
Gli Angiò speravano di recuperare il regno di Napoli, ma tale speranza fu infranta nel 1442, quando quella città venne strappata dagli Aragonesi.
La Sale partì quindi dalla Borgogna e arrivò in Umbria, fece tappa ad Assisi e Spoleto, dove lasciò incise le sue insegne nella Basilica di San Francesco e nel Duomo spoletino.
Quindi attraverso il passo di Sasso Borghese il 28 maggio 1420 giunse a Montemonaco.
Lì ascolta dalla voce dei Montemonachesi fra cui Antonio Fumato i racconti sulla Regina Sibilla, cerca di capire se esistono veramente Fate e Sibille, e inizia ad incamminarsi verso la Grotta.
Seguirà tutto il racconto sul Regno della Sibilla e le sue Ancelle velato di paura e scettiscismi “ad arte” per salvarsi dall’Inquisizione.
De La Sale tornerà a Montemonaco una seconda volta nel 1440.