Basilica di Sant’Elia – Castel Sant’Elia (VT)
Cenni Storici
La basilica di Sant’Elia a Castel Sant’Elia sorge al centro della valle Suppentonia, che sin dai primi secoli dell’era cristiana si distinse come centro anacoreta e quindi benedettino ove, secondo la tradizione, sorgeva un tempio, dedicato alla dea Diana, fatto costruire dall’imperatore Nerone e che ancora prima, nel periodo etrusco, sempre qui sorgesse un Delubro dedicato a Pico Marzio.
È parte di un complesso noto con il nome di Santuario pontificio di Santa Maria “ad rupes“.
Il monastero, secondo la tradizione, fu fondato intorno al 520 dal franco Sant’Anastasio di Suppentonia, notaio della curia romana,l’intitolazione a Sant’Elia, conferma l’origine eremitica, presumibilmente di matrice orientale, del primo nucleo monastico.
La prima testimonianza del monastero si ha in un antico papiro depositato nell’archivio vescovile di Ravenna, scritto a Roma o a Nepi il 3 Giugno del 557.
Il documento riferisce di una contesa di proprietà, nel periodo della guerra greco-gotica, vi compaiono i nomi: dell’Abate Anastasio, del Papa Virgilio che opera la riconciliazione e la restituzione dei beni usurpati, del generale Belisario e di un tale personaggio di nome Gundilla che dopo la riconciliazione fa una donazione alla Chiesa di Santa Maria di Nepi.
Per scomodare il Papa e Belisario il monastero doveva aver già raggiunto una notevole importanza. Un’altra importante testimonianza dell’esistenza del monastero nella Valle Suppentonia compare nei dialoghi di Gregorio Magno.
La basilica, fondata tra VIII ed il IX secolo, fu poi ricostruita all’inizio dell’XI secolo.
Da una fonte più tarda, la vita di Odone di Cluny, scritta dal suo discepolo Giovanni nel X secolo, si apprende che nel 940 Alberico II, principe e senatore dei romani, figlio di Marozia, affidò ad Odone di Cluny, il monastero di Sant’Elia, ove dilagava la corruzione, con l’incarico di riformarlo.
Secondo una leggenda i monaci non riuscivano ad astenersi dal mangiare carne adducendo con la scusa che nella zona vi fosse grande penuria di pesce; Odone allora compie il miracolo di trasformare il torrente che scorre sotto il monastero in un lago, in modo tale che i monaci non dovessero compiere grandi fatiche per procurarsi il pesce.
Del lago oggi non è rimasta alcuna traccia, ma rimane la toponomastica “località del lago“.
Il monastero è poi menzionato in un documento del Dicembre 965 con cui Atria, badessa del monastero dei Santi Maria e Biagio di Nepi, con il consenso di tutte le monache, concede a Demetrius un pezzo di terra incolta in concessione.
Nel 987, il monastero di Sant’Elia è menzionato in un atto di vendita di un terreno posto nel territorio ortano, da parte di due privati, a due presbiteri e monaci della Cella di Santa Liberata, dipendente dal monastero di Sant’Elia, documento conservato nell’Archivio Vescovile di Orte.
Nel 990 il “monasterium sanctu Eli” è nominato tra le proprietà confinanti di un fondo concesso da Teodora, badessa del monastero di San Biagio a Nepi, ad un certo “Dominicus“.
Nel 1017, l’abate Pietro del monastero di Sant’Elia, è coinvolto in una contesa tra l’abate Ugo di Farfa e i preti di Sant’Eustachio, per il possesso di alcuni beni in Roma.
Le prime notizie certe sulla Basilica, ricostruita all’inizio dell’XI secolo, risalgono al 1076 con una citazione di papa Gregorio VII.
Nel 1177 il pontefice Alessandro III prende il monastero di Sant’Elia sotto la protezione pontificia, ne conferma la regola di San Benedetto, ed i suoi possedimenti, compreso anche il “Castellum quod est supra ipsum Monasterium” ossia l’attuale Castel Sant’Elia.
Innocenzo III,con una bolla del 1211, unisce il monastero con le sue pertinenze al monastero di San Paolo fuori le mura.
I Benedettini rimasero al monastero di Sant’Elia fino al 1256, quando Alessandro IV lo concesse ai Canonici dell’Ospedale di Santo Spirito in Saxia di Roma, possesso confermato dallo stesso pontefice con una bolla del 14 Luglio 1258.
Nel 1260, i canonici di Santo Spirito eressero un nuovo campanile, come attestato da un’epigrafe, già murata sul lato frontale dello stesso, ora giacente nel camposanto sotto le sue rovine:
“IPO . FRI. BERNA DI/PRAEP. HOC. OPUS/ FECIT. ORATE. P. E. O./ S. A. D. M: CC: LX“.
Nicolò IV, nel 1291, conferma ulteriormente la concessione ai Canonici.
Nel 1540 l’Ospedale di Santo Spirito in Saxia cede il “Castrum S. Eliae” che comprendeva anche la chiesa, in permuta alla Camera Apostolica.
Nel 1541 la Camera Apostolica vende il “Castrum S. Eliae” a Pierluigi Farnese; in tale data, probabilmente, il monastero non esisteva più, in quanto, di esso, non se ne fa menzione.
Il 7 Febbraio 1574, monsignor Alfonso Binarini, Vescovo di Rieti, visita la chiesa di Sant’Elia e ordina quali lavori di riparazione debbano essere eseguiti.
Dalla visita si apprende che le navate laterali erano usate per seppellire i morti e la cripta designata come “cimiterium“, il Vescovo ordina che sia costruita una porta di accesso ad essa.
Nel 1607 la caduta di un masso dalla rupe danneggiò la parete laterale sinistra: la riparazione fu curata dai Farnese che possedettero la basilica fra il 1540 e il 1649, in quell’anno la Basilica di Sant’Elia e i suoi possedimenti, già inclusi nel ducato di Castro, sono incamerati dal Governo pontificio.
Inizia così un periodo di decadenza per il monumento, accelerato dalla costruzione, nel 1728, della nuova chiesa di Sant’Antonio Abate all’interno delle mura del centro abitato.
Nel 1792 Camera Apostolica concede in enfiteusi l’intero complesso a Carlo Maria Luciani; da questi sarebbero poi passati, nell’Ottocento, al marchese Andrea Lezzani.
Il 12 Febbraio 1851 monsignor Gaspare Maria Petocchi, Vescovo di Nepi e Sutri, in visita apostolica, su insistenza dei fedeli, fece aprire l’arca all’interno dell’altare che, secondo la tradizione, avrebbe contenuto le reliquie dei Santi; l’arca, trovata vuota, fu poi murata di nuovo all’interno dell’altare. Le navate laterali si colmarono di terra e furono utilizzate per la sepoltura.
Il 2 febbraio del 1855 precipitò la torre campanaria, devastando una porzione della navata centrale e di quella laterale sinistra, e la cappella dedicata alla Vergine posta a ridosso dell’entrata laterale destra.
In seguito al crollo e dietro l’interessamento della stessa popolazione, sotto il pontificato di Pio IX, l’Accademia di Archeologia Cristiana, nel 1856, incaricò l’architetto Virgilio Vespignani del progetto di restauro.
Con i lavori di restauro, che portarono anche alla creazione del cimitero nell’area dell’ex Monastero, furono riaperti gli ingressi laterali, rimossa la terra che ingombrava le navate laterali già adibite a cimitero, rafforzate, all’esterno, le mura e la parete destra della chiesa fu consolidata con la costruzione di un contrafforte la zona dove prima si innalzava la torre campanaria.
Alla fine degli anni ’60 fu restaurata l’intera superficie affrescata dell’abside e delle pareti del transetto, rifatta la copertura della chiesa e realizzato l’attuale pavimento in acciottolato delimitato da alcuni reperti archeologici romani.
Nel 1994 furono restaurate le superfici scultoree dei portali della facciata e predisposto l’impianto di allarme.
Risale al 1997 il restauro della pavimentazione musiva e al 2003 quello del pavimento in cotto della zona absidale della sacrestia e della cripta.
Aspetto esterno
La semplice facciata, affiancata da ali laterali, risale al XII secolo.
Una lapide ivi apposta ricorda il restauro di Pio IX:
D.O.M.S./ A.. R.. S.. MDCCCLVI/ PROVIDENTIA PII IX PONTIFICIS MAXIMI/ BASILICAM IN HONOREM HELIAE/ PROPHETAE SANCTISSIMI IAMDIU EXTRUCTAM/ INIURIA TEMPORUM ET INCOLARUM PAUCITATE/ IN COEMETERIUM REDACTAM/ IMPROVIDA TURRIS CAMPANARIAE ADIECTIONE/ IN RUINAS PARTIM DELAPSAM/ MURIS EXTERIUS INTERIUS COLUMNIS RESTITUTIS/ CONTIGNATIONIBUS INSTAURATIS/ SECUS BASILICAM COMMODO COEMETERIO RESTITUTO/ RENOVAVIT AEVO IN MELIUS EFFLORESCENTE.
Presenta nella parte superiore la decorazione delle arcatelle pensili ed ospita tre portali: nel portale sinistro sono reimpiegati frammenti marmorei provenienti dall’antico ciborio, anche quello centrale, che ingloba il precedente del X secolo, è stato realizzato con frammenti di marmo; in alto emergono due teste di arieti: quella di sinistra assiste alla negatività delle scene sottostanti, mentre quella di destra è appagata dalla visione benefica.
Il portale destro presenta un affresco raffigurante la Madonna col Bambino sulla lunetta.
Interno
La basilica, in stile romanico, è a tre navate con transetto, il tutto contenuto in un rettangolo sghembo.
Il transetto e parte della navata centrale presentano un pavimento cosmatesco verosimilmente ascrivibile alla fine del XII e più probabilmente ai primi decenni del XIII secolo, fra i più interessanti e meglio conservati fra tutte le chiese romaniche laziali: nella zona centrale predomina il disegno di tondi intrecciati di porfido.
È probabilmente opera dei Cosmati, del maturo Lorenzo, coadiuvato dal figlio Iacopo e dal giovane nipote Cosma.
Nella navata sinistra, si trovano lesene, plutei, transenne, alcuni sarcofagi di età imperiale romana, frammenti di epigrafi.
La navata maggiore presenta sette archi per lato, sorretti da sei colonne con differenti capitelli corinzi e da due semi colonne terminali.
Le colonne di cipollino e di bigio che delimitano la navata centrale, provengono quasi certamente dallo spoglio di ville e monumenti romani sono corredate da capitelli, pure di spoglio, corinzi a doppio o triplo giro di foglie, dai quali si differenziano i quattro impiegati sui semipilastri in muratura addossati alla controfacciata e all’arco trionfale.
Nel capitello sul lato meridionale della controfacciata si individuano sette figurette umane, in tutto simili a quelle dello stipite sinistro del portale centrale, che si tengono per mano, caratterizzate dalle grandi teste ovoidali con enormi bulbi oculari, decisamente sproporzionate rispetto ai corpicini da cui spuntano mani gigantesche.
In fondo alla navata mediana, si ammira un pergamo appartenente alla prima costruzione, con lastre ornate da bassorilievi ornamentali.
Al transetto, che risulta sopraelevato di tre gradini, si accede attraverso tre arcate che lo separano dalle tre navate.
Il lato sinistro del transetto ha perso molte delle superfici affrescate, probabilmente a seguito della caduta del masso che nel 1607 lo distrusse parzialmente.
Sul pilastro è effigiato un affresco votivo raffigurante San Leonardo, sulla faccia rivolta verso l’abside Cristo in trono.
Nella parete di sinistra, al registro sottotetto, intercalata alle due monofore, inizia la teoria dei Profeti nimbati, che prosegue poi sulla parete di fondo e sul transetto destro, decorazione pittorica omogenea e della stessa mano di quella dell’abside, di cui si dirà in seguito.
Al registro inferiore una scena con ampie lacune e non decifrabile, poi due raffigurazioni tratte dal libro dell’Apocalisse: la Donna vestita di Sole e il Drago rosso affrontato da San Michele.
Nella parete di fondo, al registro superiore continua la serie dei Profeti nimbati, parzialmente perduta, ai due registri inferiori inizia la dei Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse diretti verso l’Agnello che sollevano in alto coppe d’oro velate: avanzano in processione verso l’abside, sollevando in alto le velate coppe d’oro ripiene di profumi.
Al registro inferiore tre votivi, raffiguranti Santo Stefano, una Santa non riconosciuta e Santa Lucia.
L’altare maggiore è sormontato da un ciborio decorato da una croce cosmatesca e sorretto da quattro colonne unite da architravi su cui corre un motivo di basse colonnine sormontate da una copertura a doppio spiovente.
L’abside è totalmente affrescata; i dipinti sono stati eseguiti, intorno all’anno mille, dai fratelli Giovanni e Stefano e da un nipote di Giovanni, Niccolò.
Il catino absidale è dominato nella parte alta dalla figura del Cristo Redentore con al fianco Pietro e Paolo e ai lati Sant’Elia e Sant’Anastasio (l’interpretazione di quest’ultima figura è controversa, secondo alcuni raffigura Mosè, secondo altri San Nonnoso).
Ai piedi del redentore si legge la scritta:
IOH(annes) ET/ STEFANUS/ FR(a)T(re)S PICTORES/ ROMANI/ ET NICO/LAUS NEPU(s) IOHANNIS, raro esempio di firma su un affresco così antico.
I cinque personaggi si muovono su un verde prato disseminato di fiorellini bianchi, al centro del quale, ai lati del Cristo, sgorgano i quattro fiumi apocalittici, corredati dalle relative iscrizioni, a destra “TIGRIS” ed “EUFRATEN“, a sinistra, molto compromessa e visibile con difficoltà, “GEON“, mentre è ormai definitivamente scomparsa la scritta “Fysion“. Pietro e Paolo reggono in mano rotoli svolti, nei quali sono ancora leggibili i testi didascalico-esegetici: per San Paolo, si tratta di un brano tratto dalla seconda lettera a Timoteo (IV, 7), che recita:
“DOMU/ CERTA/MEN CER/TAVI CURSU(m)/ CONSU/MAVI FI/DE(m) SER/VAVI“; 300 per San Pietro, invece, si tratta del brano evangelico (Giovanni XI, 27 e Matteo XVI, 16):
“TU ES/ XPS (Christus)/ FILI/US DEI/ VIVI/ QUI I/N UC MUNDU(M)/ VENISTI…“.
Chiude il catino una fascia decorativa con fioroni policromi, che corre anche nell’intradosso dell’arco absidale, profilata da strisce rosse: sul bordo superiore è dipinta in bianco un’iscrizione esortativa, con cui si invitano coloro che entrano nella chiesa a guardare per prima la figura del Cristo:
“VOS QUI INTRATIS ME PRIMU(m) RESPICIATIS“.
Più in basso, sul tamburo, Dodici agnelli in movimento verso l’Agnello di Dio.
Questi, provenienti dalle città paradisiache (Gerusalemme, identificata dall’iscrizione IERUSA/LEM, e Betlemme, perduta insieme agli ultimi tre agnelli sulla destra) si muovono su un fondo giallo scanditi da esili palmizi a gruppi di tre, per la presenza delle monofore, e convergono verso l’Agnello divino: è la consueta raffigurazione simbolica degli apostoli che gravitano verso il Salvatore, secondo l’iconografia tipica di altri modelli romani, chiarificata dall’iscrizione sul nastro rosso che corre in basso:
ISS[.]I SUNT AGNI NOVELLI QUS NU(n)TIAVERUNT PACE(m) ALLELUIA […..] VENERUNT AT FONTES RE[—].
La finestra di sinistra, è stata tamponata e dipinta con un San Giovanni Battista nel XVI secolo.
Nella parte inferiore è rappresentato un Corteo di vergini che portano corone da offrire ad una figura assisa in trono, tra i due arcangeli, Michele e Raffaele, di cui rimangono parte della veste in rosso mattone, del braccio e della mano che impugna la croce astile gemmata, probabilmente il Cristo o la Madonna assisa in trono.
Alla sinistra del trono è raffigurato, come d’uso di ridotte dimensioni, il committente, un monaco benedettino, in prossimità della figura si legge la scritta: [—]EAT [—] [m]O[n]ACHUS PA[—].
La decorazione absidale termina con un finto velario dipinto: su un fondo bianco si incrociano motivi geometrici, fitomorfici e simbolici, quali calici con pigne e pavoni, resi in rosso, giallo e blu.
Il transetto destro è anch’esso ricoperto di affreschi, realizzati dagli stessi artisti dell’abside, articolati su quattro registri.
Al registro superiore, sia nella parete frontale che destra, prosegue la lunga teoria di Profeti nimbati, nei due registri inferiori la processione dei Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse diretti verso l’Agnello che sollevano in alto coppe d’oro velate.
Segue, al registro più in basso, Morte e funerali dell’abate Atanasio e il dolore dei monaci con l’arcangelo Michele chiama, dopo gli altri monaci, lo stesso Anastasio.
Sulla parete destra, ai registri inferiori, si trovano altri affreschi che raffigurano visioni dell’apocalisse, non sempre di facile e univoca interpretazione.
Nel secondo registro dall’alto, Trono di Dio e la corte celeste; Episodio dell’Apocalisse; nel terzo registro, Quattro venti dell’Apocalisse; Quinta tromba dell’Apocalisse, nel registro inferiore, Quattro cavalieri dell’Apocalisse; Apparizione della Donna; Visione della Donna e il drago.
Sul pilastro che introduce alla navata destra sono due affreschi votivi raffiguranti Sant’Antonio abate e un Santo martire.
Sulla faccia rivolta alla parete di destra è effigiato un Santo Guerriero che tiene in mano un piccolo falco, probabilmente si tratta di San Giuliano l’Ospitaliere; sulla parete di fronte Madonna in trono col Bambino.
Nella navata destra della basilica si trova una lunga serie di ex voto dipinti da artisti locali.
In un primo gruppo di quattro votivi sono raffigurati San Michele arcangelo, Madonna in trono col Bambino, Santa Caterina d’Alessandria e San Leonardo.
Segue un altro gruppo di votivi, si riconoscono la Madonna col Bambino, San Sebastiano, San Paolo e una Santa, Santa Caterina d’Alessandria e un Angelo, infine, di più piccole dimensioni, un Santo Vescovo.
Dopo un piccolo spazio privo di decorazioni ha inizio una più numerosa sfilata di votivi, vi si trovano raffigurati Sant’Antonio abate, San Giovanni Battista, un Santo Vescovo, Santa Caterina d’Alessandria tra due sante Martiri, San Bartolomeo, Madonna in trono col Bambino, San Leonardo e San Francesco che assiste allo Sposalizio mistico di Santa Caterina d’Alessandria.
Chiudono la lunga serie di votivi della parete destra un San Leonardo e unico affresco datato una Madonna in trono col Bambino del 1448, di pregevole scuola pittorica.
All’inizio della navata destra si trovano altri sarcofaghi.
A destra dell’ingresso, posto sopra un capitello ionico di spoglio, si trova l’antico fonte battesimale formato da una vasca rotonda con una rottura intorno.
Cripta
Vi si accede tramite una ripida scala, aperta nel fondo della navatella destra, che conduce ad una porta composta con pezzi di reimpiego, tra i quali un architrave modanato, sulla cui cornice superiore si legge l’iscrizione:
LUX IMMENSA D(eu)S LUM(en) DE LUMINE FULGENS BOVONI FAM(u)LO SIS P(re)COR AUXIL(ium).
Si perviene poi in una stanza voltata a botte, di forma rettangolare, di piccole dimensioni con un’absidiola ricavata nello spessore di muro della parete di fondo, in cui si apre una finestra centinata un tempo schermata da una transenna in stucco, oggi trafugata; di fronte alla nicchietta, si trova un altare a cassa composto con pezzi altomedievali, tradizionalmente indicato come “tomba di San Nonnoso“.
Il vano è completamente intonacato e presenta una decorazione in giallo ocra su un fondo chiaro, con motivi di girali e mitre, insieme ad iscrizioni all’interno di clipei, con tutta probabilità frutto della sistemazione seicentesca che dovette interessare l’ipogeo al momento della realizzazione dell’altare detto di Sant’Anastasio nell’oratorio adiacente.
Il sacello è precedente all’intero complesso chiesastico, probabilmente è parte del primitivo cenobio, sotto l’intonaco di rivestimento sono emersi i resti di una decorazione ad affresco.
Si accede poi alla Cripta, che si può datare al tardo XI secolo e costituiva parte di una struttura chiesastica anteriore all’attuale.
La pianta ha la forma di un rettangolo absidato, è suddivisa in sei campate coperte a volta a crociera, oggi intonacate, con pesanti sottarchi che si dipartono dai due sostegni centrali per poi ricadere sui pilastri semicilindrici in muratura sormontati da capitelli, addossati al perimetro dell’ambiente, formando così delle specchiature arcuate sulle pareti.
I materiali impiegati nei supporti sono per lo più di recupero: una colonna scanalata di un marmo screziato grigio-rosato, su una base di spoglio, sormontata da un bell’esemplare di capitello antico a volute, ovuli e fuseruole, e un pilone cilindrico in muratura di tufo, eretto, evidentemente, in un secondo momento a rafforzare la colonna inglobata all’interno, resa visibile da una scalpellatura sul retro del pilastro, che ha fatto riemergere il raffinato capitello di marmo bianco a volute lisce, della medesima tipologia di quelli che sostengono la ricaduta delle volte sulle pareti, dai quali si differenziano solo quello al centro della parete occidentale e quello adiacente nella parete settentrionale, composti da basi modanate capovolte sormontate da parallelepipedi lisci.
L’intero ambiente è circondato da un basso sedile in muratura, conservato per tutta la sua estensione, tranne che in un tratto nell’abside.
La muratura è di grandi blocchi di tufo, regolarmente squadrati, con poca malta, dotata di due sole aperture, corrispondenti alla fila inferiore di finestre nell’abside: la meridionale mantiene il suo profilo originale di stretta monofora a feritoia strombata verso l’interno, mentre quella centrale è stata chiaramente ampliata.
Sagrestia
Corpo aggiunto in epoca successiva, un tempo da essa si poteva accedere alla cripta, vi si trova un affresco cinquecentesco raffigurante la Pietà.
Fonti documentative
GIROLAMI VINCENZO Basilica romanica di S. Elia a castel Sant’Elia Vibrazioni dell’anima Nepi 2012
SCUNGIO ELISABETTA Arte e monachesimo benedettino nell’Alto Lazio dalle origini al XII secolo. Documenti, forme insediative e monumenti nelle diocesi di Nepi e di Civita Castellana tesi di laurea Anno Accademico 2012-2013
SEVERINO NICOLA Pavimenti Cosmateschi della Tuscia e della Sabina
http://www.comune.castelsantelia.vt.it/turismo-e-storia/73-basilica-di-santelia/
http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/ricerca.v2.jsp?locale=en&decorator=layout_resp&apply=true&percorso_ricerca=OA&filtrolocalizzazione_OA=4639%7C538&sortby=LOCALIZZAZIONE&batch=10
http://www.medioevo.org/artemedievale/Pages/Lazio/CastelSantElia.html
http://www.italiavirtualtour.it/dettaglio.php?id=98540
https://it.cathopedia.org/wiki/Basilica_di_Sant%27Elia_(Castel_Sant%27Elia)
Nota
La galleria fotografica ed il testo sono stati realizzati da Silvio Sorcini.