Abbazia di San Pietro al Conero – Comune di Sirolo (AN)
Esterni Abbazia
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Interni della Chiesa
Cripta della Chiesa
Cenni Storici
Nel medioevo il monte Conero era stato prescelto da molti santi uomini che sentivano il bisogno di condurre la propria esistenza in piena solitudine; gli eremiti, vivevano cibandosi di bacche e radici e dimoravano in grotte naturali o appositamente scavate nelle rocce: i cosiddetti romitori. Costoro non appartenevano a nessun ordine religioso e amavano vivere a stretto contatto con la natura, in silenzio, solitudine e meditazione, lontani dalle passioni e dalle tentazioni umane; solo in seguito i monaci Benedettini si recarono sul monte per dare vita a delle vere e proprie comunità religiose. Da fonti storiche attendibili, sembra che il romitorio esistesse già prima dell’XI secolo, epoca alla quale si fa risalire la costruzione della Badìa di San Pietro. Nei primi anni del Mille due ricche abbazie erano presenti sul monte: una verso la cima, a quota 470 metri, alla quale era unita la chiesa di San Pietro, l’altra situata a metà monte, intorno a quota 300 metri, dedicata a San Benedetto, oggi completamente scomparsa; ne restano solo alcuni ruderi e dei muretti a secco sui quali forse sorgevano la chiesa e l’annessa casa. Il complesso sorgeva vicino ad una grotta (con altare e sedili in pietra) chiamata Grotta di San Benedetto o Grotta dell’Abate. Da un atto, datato 8 aprile 1037, si apprende che i Conti Cortesi Signori del Castello di Sirolo donarono all’Abate Guizemone la chiesa sulla vetta del monte per istituirvi un monastero: dunque, anche se nessun documento ricorda una sua più antica fondazione, la chiesa di San Pietro esisteva già prima del 1037 e, sembrerebbe ormai certo, venne edificata nei primi anni del Mille. Per costruirla la chiesa di San Pietro, furono usate le pietre ricavate dal monte: a questo si deve il suo candore, poiché la pietra del Conero è molto simile alla rinomata pietra d’Istria. Il tempio è diviso in tre navate, con un’abside in fondo alla navata centrale; l’assenza di decorazioni all’interno, come all’esterno, lo rendono particolare nel suo bianco candore e nella suggestiva collocazione. Vicino alla chiesa, i frati Benedettini vivevano in modeste celle e la loro semplice vita era basata sulla preghiera e sui lavori agricoli; vivevano anche di elemosina e in armonia con tutti. Nel 1203 l’eremo fu ampliato e vennero costruiti dei chiostri e nella chiesa furono eseguiti dei lavori di abbellimento. Poi nel 1223 furono eseguiti degli altri lavori e nella cripta vennero installati sei pilastri ed otto colonne, probabilmente, recuperati da qualche loggiato o portico di un cortile. I capitelli della cripta, ricchi di bassorilievi, riproducono motivi tratti dal mondo vegetale ed animale, probabilmente attinti da tutto quello che l’ignoto scultore vedeva attorno a sé; ma la nota caratteristica del tempio è nei magnifici capitelli, che addobbano le colonne della chiesa, e nell’eleganza dei loro disegni, tutti diversi l’uno dall’altro. Dai fregi dei capitelli delle quattro colonne, tre derivano i loro motivi dal mondo vegetale, mentre il quarto rappresenta paurose figure, quali mostri deformi con corpi di serpente attorcigliati l’uno all’altro, musi orecchiuti con occhi bucati e bocche enormi, ali di pipistrelli innestati a corpi ritorti: figure queste tipiche dell’epoca medioevale. I Benedettini vissero sul Conero in armonia con l’ambiente circostante e praticando molta preghiera per altri 300 anni, ma il loro numero era sempre in calo, ed iniziò così un’inesorabile decadenza di tutto il complesso: il suo culmine avvenne nell’anno 1514 e nel 1518 ai Benedettini subentrarono i Gonzaghiani che presero possesso della chiesa di San Pietro e dell’eremo, mentre i Camaldolesi occuparono le grotte di San Benedetto e, nel 1521, l’omonima chiesa. A quel punto iniziarono i dissidi tra le due componenti religiose, perché i Gonzaghiani non vedevano affatto di buon occhio fiorire il nuovo ordine religioso ed, approfittandosi della loro posizione strategica, compivano dei veri e propri “attentati”: accumulavano grossi massi per farli poi rotolare in direzione del chiostro e sopra le celle dei poveri Camaldolesi che, ovviamente spaventati, erano costretti a rifugiarsi all’interno del bosco. Le contese tra le due famiglie eremitiche terminarono nel 1558, quando un incendio bruciò completamente i tetti della chiesa di San Pietro e dei locali attigui e, a causa dell’eccessivo calore, si sgretolarono anche le parti in muratura esterne della chiesa. Fu così che i Gonzaghiani, loro malgrado, furono costretti ad abbandonare l’eremo di San Pietro, che assieme a quello di San Benedetto fu affidato ai Camaldolesi, che iniziarono l’opera di recupero di quello che rimaneva della struttura incendiata. I Camaldolesi rimasero sul Conero fino all’epoca delle soppressioni: il loro definitivo abbandono avvenne nel 1860.
L’antico monastero benedettino, annesso alla chiesa, è stato trasformato ed è ora un elegante e confortevole albergo.
Aspetto esterno
La facciata con le colonne è del ‘700 mentre la navata sud e la base del campanile risalgono alla costruzione originale. Interessanti all’interno i capitelli con sculture tipiche dell’iconografia medioevale.
Interno
Il tempio è diviso in tre navate, con un’abside in fondo alla navata centrale; l’assenza di decorazioni all’interno, come all’esterno, lo rendono particolare nel suo bianco candore e nella suggestiva collocazione. La nota caratteristica del tempio è nei magnifici capitelli, che addobbano le colonne della chiesa, e nell’eleganza dei loro disegni, tutti diversi l’uno dall’altro. Dai fregi dei capitelli delle quattro colonne, tre derivano i loro motivi dal mondo vegetale, mentre il quarto rappresenta paurose figure, quali mostri deformi con corpi di serpente attorcigliati l’uno all’altro, musi orecchiuti con occhi bucati e bocche enormi, ali di pipistrelli innestati a corpi ritorti: figure queste tipiche dell’epoca medioevale.
Cripta
I capitelli della cripta, ricchi di bassorilievi, riproducono motivi tratti dal mondo vegetale ed animale, probabilmente attinti da tutto quello che l’ignoto scultore vedeva attorno a sé.