San Francesco a Montefiorentino – Frontino (PU)

Cenni Storici

La chiesa ed il convento di Montefiorentino formano un complesso armonico ed unitario, nonostante appartengano a secoli diversi e mostrino tracce di diversi stili architettonici e decorativi. Sorta intorno alla metà del duecento, la chiesa conserva sulla facciata un antico portale di pietra e nell’abside piatta un’alta fine-stra gotica (ricuperata con i recenti restauri), mentre all’interno, sul fianco destro, esibisce una cappella quattrocentesca; il campanile ha un aspetto cinquecentesco, come la parte inferiore del portico; tutto il resto conserva solo qualche minima traccia medioevale e rinascimentale ed appartiene al seicento ed al settecento. Le soppressioni del 1810 e del 1867 non allontanarono mai definitivamente dal convento e soprattutto dalla chiesa i francescani, che riuscirono a ricuperarne la proprietà nel 1890. Un lungo restauro, compiuto fra il 1958 e il 1975 dal Genio civile e dalla Soprintendenza per i beni architettonici, ha consolidato, ripulito e ripristinato tutto l’insieme, che ora si presenta in ottimo stato.

La cappella dei conti Oliva.

All’interno della chiesa di San Francesco la cappella gentilizia dei conti Oliva, signori di Piagnano, costituisce uno splendido esempio di arte toscana nelle Marche. Voluta da Carlo Oliva nel 1484, fu da lui dedicata alla memoria dei genitori, Gianfrancesco e Marsibilia; di questi custodisce le tombe, finemente scolpite da Francesco di Simone Ferrucci da Fiesole. Anche l’architettura, che definisce con rigore uno spazio limpido, di derivazione brunelleschiana, è attribui-bile a questo artista. Sull’altare spicca una grande tavola, firmata da Giovanni Santi e datata 1489, mentre ai lati sono collocati due inginocchiatoi intarsiati, eseguiti in onore dei due defunti nel 1493.

Le tombe di Gianfrancesco Oliva e di Marsibilia Trinci.

Lo scultore fiesolano Francesco di Simone Ferrucci nel progettare i monumenti funerari degli Oliva ha tenuto presenti quelli celebri del Bruni e del Marsupini in Santa Croce di Firenze, alla cui struttura si era ispirato già in opere analoghe eseguite a Forlì e a Bologna. Qui però ne ha dato un’interpretazione più aulica e ornata, in un certo senso intonata al gusto della corte urbinate, presso cui aveva lavorato negli anni sessanta, e nella cui orbita aveva finito per gravitare lo stesso Carlo Oliva dopo i rovesci toccati a Sigismondo Pandolfo Malatesta nel 1462. L’apparato decorativo delle due tombe utilizza tutti i motivi del repertorio toscano in voga nella seconda metà del quattrocento, composti ed eseguiti con grande maestria e delicatezza. Nelle figure si rivela una notevole influenza di Andrea del Verrocchio, presso il quale Francesco di Simone aveva lavorato a più riprese. Complessivamente le sculture esprimono un grande equilibrio, un senso di quieta armonia, di dignitosa umanità; anche i putti che reggono le lunghe iscrizioni, composte probabilmente dallo stesso Carlo, hanno una vivacità trattenuta, misurata, quasi per non rompere l’incanto del lungo sonno delle figure distese sui catafalchi. Quella di Gianfrancesco (1406-1478), composta nella sua splendida armatura da capitano di milizie, con la grande spada al fianco, ha il volto nobile ed energico che sembra ancora corrucciato per le gravi ferite ricevute a Città di Castello mentre combatteva per Sisto IV (1474). Quella di Marsibilia Trinci (1415-1485), in severi abiti vedovili, conserva ancora le tracce di una antica, severa bellezza e di una grande nobiltà.

La Pala della Cappella Oliva, dipinta da Giovanni Santi (1489)

Un cartellino dipinto in primo piano reca la dedica di Carlo Oliva, la firma del pittore urbinate Giovanni Santi, e la data 1489. Al centro della tavola è raffigurata la Madonna col Bambino davanti ad una nicchia marmorea, affiancata da quattro angeli giovanetti e dai santi Giorgio (?), Francesco, Antonio abate e Girolamo; angeli musicanti e teste di cherubini sono dipinti sull’architettura, contro uno sfondo di cielo, mentre in primo piano a destra compare il ritratto inginocchiato del committente e dedicante, Carlo Oliva. Sull’identificazione di tutte queste figure non c’è concordanza fra gli studiosi, specialmente sull’ultima, per la quale è stato proposto anche il nome di Giovanfrancesco, padre di Carlo, morto nel 1478. C’è invece concordia nel giudicare la figurazione nel suo insieme come una delle più caratteristiche e riuscite di Giovanni Santi. Si tratta infatti di un piccolo capolavoro, in cui si ritrova un pallido riflesso dell’arte toscana, veneta ed emiliana, composte da “una dolcezza malinconica, una luminosità tersa e spenta, una divulgazione affabile” (Calegari). Restaurata nel 1972, l’opera si presenta in uno stato quasi perfetto di conservazione e ancora nella sua sfarzosa cornice originale in legno intagliato, dipinto e dorato, attribuita ad Ambrogio Barocci. Questa nella sua parte inferiore è ornata dagli stemmi degli Oliva e dei Trinci, che comparivano anche, variamente alterna-ti, nel pavimento di maiolica di tutta la cappella (ne sono superstiti solo alcune mattonelle, ora collocate in un pannello sotto all’altare).

Gli inginocchiatoi della cappella Oliva, intarsiati da Maestro Zocchino (1493).

Per quanto restaurati abbondantemente, i due inginocchiatoi della cappella Oliva costituiscono arredi rari e preziosi soprattutto per gli intagli e gli intarsi molto accurati che li caratterizzano, con ornati geometrici, grottesche e stemmi. Il nome del loro autore, “magister Zocchinus”, compare alla fine di un epigramma in quattro distici intarsiato sui fianchi dei due mobili, insieme alla data 1493, che ci permette di considerare questi come gli ultimi lavori ordinati da Carlo Oliva in memoria dei genitori: ai quali sono esplicitamente dedicati dalle iscrizioni del fregio. Ma è molto dubbio che essi dovessero essere posti, come ora, all’interno della cappella, dove risultano ingombranti e fuori scala; piuttosto dovevano affiancare l’altare, quasi a conclusione del coro dei frati, che probabilmente li rimossero fin dal XVII secolo, quando tutta l’abside della chiesa fu ristrutturata. Particolarmente interessanti sono le tarsie di cui sono ornati i dossali: raffigurano finte nicchie con sportelli traforati semiaperti, che lasciano intravedere libri, ampolline, frutti, candele. Nell’inginocchiatoio dedicato a Marsibilia si vede fra l’altro un calice (molto simile ad uno ancora esistente, con stemmi dei Trinci e degli Oliva), un messale ed un altro libro che reca chiaramente indicato sul taglio l’autore: Dante. Per quanto riguarda l’intarsiatore non conosciamo altri suoi lavori: probabilmente aveva collaborato all’esecuzione delle tarsie dello studiolo del Palazzo ducale di Gubbio (ora al Metropolitan Museum di New York) ed a quelle della sagrestia di San Giovanni a Loreto. In ogni caso rivela una cultura tosco-urbinate, ed una buona tecnica esecutiva.

Statua raffigurante san Francesco

Questa inedita statua di pietra, collocata in una nicchia della scala del convento, raffigura in maniera non convenzionale san Francesco: infatti, nonostante il corpo massiccio e il volto glabro la caratterizzino in modo inconsueto, le stimmate ne permettono un’identificazione sicura. Si tratta di una scultura eseguita con molta diligenza e nello stesso tempo con una certa ingenuità, forse da un frate e forse nel convento. Proprio la sua ingenuità rende difficile datarla con buona approssimazione; ma il gusto per le forme massicce ed alcune incertezze decorative fanno pensare alla fine del XVI o all’inizio del XVII secolo. Nella raffigurazione così compunta e “civile” di san Francesco si può forse ipotizzare una velata polemica con i “riformati” Cappuccini; un motivo di più per pensare l’opera come eseguita alla fine del XVI secolo. Non si dimentichi che Matteo da Bascio fu a lungo in questo convento, che tuttavia non aderì alla riforma cappuccina.

Tratto da “Frontino” a cura di Girolamo Allegretti

 

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