Pieve di Santa Maria – Laverino (MC)
Cenni Storici
Laverino si colloca sul territorio di confine tra Umbria e Marche, nei pressi del Passo Cornello che delimita il confine tra le due regioni.
Sorge sotto l’ultima propaggine a nord del Monte Pennino, (1570 m) l’altopiano di Finiglia delimita un lato della stretta vallata sull’altro lato i monti che guardano ad est.
La valle appenninica è solcata dal fiume Potenza, che scorre nei pressi delle frazioni, Fonti di Brescia, Laverino, Laverinello, e dai suoi primi affluenti, Fiumetto, Fosso di Capodacqua e fosso Campodonico, che costituisce con i monti circostanti, il territorio dell’odierno comune di Fiuminata.
Queste terre, probabilmente, conobbero alcuni insediamenti umani già nell’era del bronzo o alla fine del neolitico come testimoniano alcuni rinvenimenti di cocci, carboni o punte di frecce, in varie località.
Laverino, da villaggio a castello, si attraversa una storia durata secoli che se pur il territorio si può considerato periferico ha visto l’insediamento del diverticolo romano che lo attraversa congiungendo il tratto di Nocera Umbra (Nuceria Camellaria) e Pioraco, (Prolaquense) che partendo da Nocera raggiungeva la vallata del Potenza, e le vie verso l’adriatico.
La diocesi di Nocera già da V secolo tendeva ad espandersi verso le vallate circostanti per i valichi del Cornello e del Termine.
Con la caduta dell’Impero Romano e le difficili conseguenze sui territori, nel 571 i Longobardi costituirono a Nocera Cammellaria una “arimannia” ed edificarono il castello di Postignano per difendere i Duchi di Spoleto dalle incursioni che provenivano da Nord con i confini dell’Esarcato Bizantino.
Anche Laverino vede la presenza di piccole comunità di origine longobarda come testimoniato delle tombe rinvenute nel 1973, presso l’attuale campo di calcio che documentano le sette sepolture a fossa con pareti rivestite a pietrame, ed una cassa lignea per un bambino.
Le tombe parzialmente sconvolte hanno restituito pochi oggetti di corredo, un boccaletto e una brocchetta di terracotta, un pettine d’osso e un anello bronzeo.
La datazione del rinvenimento del sepolcreto è del VII secolo, i corredi oggi sono conservati ad Ancona al Museo archeologico nazionale.
Dai documenti già pubblicati da don Germano Mancini, in forma sintetica, si rileva che gli storici: D. Dorio (“Historia della famiglia Trinci” Foligno 1646) e L. Jacobilli (“Di Nocera nell’Umbria e sue diocesi” Foligno 1653) concordano nell’affermare che il fondatore del castello medioevale di Laverino fu Rodolfo di Monaldo III.
Il diario di Monaldo dice “…Possedè ancora molti castelli da lui edificati dall’altra parte dilli vicini monti dell’Appennino, che erano Gista, Laverino, Rocca s. Lucia, Somaregia…”.
Liverino diviene protagonista: è parrocchia inserita nell’elenco delle “Collettorie” vaticane.
Nel 1333, erano presenti due sacerdoti a cura delle anime del territorio.
Molte saranno le visite pastorali, che si susseguiranno nel tempo e furono motivo di orgoglio per la comunità parrocchiale; trasformazioni per ampliare l’edificio e testimonianze pittoriche, lo confermano.
La Pieve di Santa Maria
La prima costruzione dell’edificio è databile intorno al XII secolo.
Fu eretta lungo la direttrice est-ovest sul pendio che dal centro del borgo di Laverino scende rapidamente a valle verso il fosso dell’Orticaia; successivamente fu rimaneggiata alla fine del XVI secolo modificando l’originale struttura, il corpo preesistente, coperto da una solida volta a botte leggermente tendente all’ogiva, viene allungato sull’asse esistente inserendo una copertura a capriate.
Si modificano le entrate una verso monte e l’altra verso il borgo.
La chiesa si arricchisce di un elegante campanile a vela che chiude la facciata verso ovest. Esternamente la robusta severità della solida costruzione non lascerebbe immaginare quanto sia stato impreziosito l’interno.
Interno
La comunità parrocchiale volle offrire, per devozione, numerosi dipinti, ad affresco sulle pareti longitudinale della chiesa.
Molte scritte in calce agli affreschi ci offrono testimonianza di tempi e dei nominativi di devoti (forse sono i signori del castello “res nobilium de Laverino“).
La recente rilettura critica degli apparati pittorici ci offre un percorso storico di oltre tre secoli, un percorso che va da XIV, al XVII secolo.
Sulla parete nord meglio conservata il ciclo pittorico è forse frutto della cultura del rinascimento declinato con il modello umbro di Matteo da Gualdo, (1435- 1507) e suoi discendenti come il nipote Gerolamo figlio di Bernardo, molto attivo nella zona (come documentato dalle cronache del tempo); gli affreschi sono databili intorno al 1505.
Diverse sono la posizione del prof Giampiero Donnini, convinto che gli affreschi siano attribuibili
al Maestro di Laverino, possibile erede della scuola marchigiana di Sanseverino, come Lorenzo D’Alessandro o di artisti intorno alla valle dell’Esino.
Oggi possiamo considerare Laverino centro artistico molto significativo, quasi un crocevia tra il territorio di Nocera Umbra e Camerino.
Uno scambio fitto e costante riconoscibile tra le due scuole che si trovano ad operare nei territori citati.
Alcune considerazioni critiche sono state già pubblicate nel prezioso volume “La Maestà di Acciano“, dello storico Ezio Storelli ed. Il Formichiere 2014.
Forse oggi quelle mappe già tracciate dovrebbero includere, la chiesa di Santa Maria di Laverino.
La discussione sulle attribuzioni è aperta; per ora chiameremo l’artista ignoto, Maestro di Laverino.
Il percorso si conclude con la bella tela, Madonna con bambino, con Sant’ Antonio Abate e Santa Lucia, attribuita recentemente all’artista camerte, Camillo Bagazzotti (catalogo della mostra De Magistris a Caldarola 2007).
Due cicli pittorici si collocano nella primitiva struttura, il primo ciclo di affreschi sulla parete a destra con le spalle all’altare, risale agli inizi del ‘406 e oltre.
La Madonna le sante e i santi a figura intera.
Le raffigurazioni narrano tutte una significativa devozione.
Apre la parete Santa Lucia (è stata una martire cristiana di inizio IV secolo durante la grande persecuzione voluta dall’imperatore Diocleziano, come si vede dalla palma che alza con la mano sinistra); la santa della luce, è la luce del suo cuore, capace di illuminare i giorni più tetri e difficili per raggiungere la luce eterna.
Segue una rappresentazione di San Pietro Martire, un domenicano ucciso violentemente da eretici nel 1252 mentre si recava a Milano, ci chiediamo come il committente conoscesse questo santo moralizzatore.
Probabilmente il parroco o un padre spirituale del luogo conosceva la storia, sicuramente ha influenzato la scelta.
L’opera forse nel tempo è stata rimaneggiata ma ciò che colpisce è lo sguardo vivo del santo a cui si aggiunge un elemento di beatificazione in alto, due Angeli raccolgono la sua candida anima con un panno bianco, pronti per entrare in Paradiso.
Madonna in trono con Bambino si ripetono sulla parete.
I Santi Elisabetta d’Ungheria, o Santa Elisabetta di Scozia? E forse San Luigi? canonizzato 1297.
Una solenne Madonna in trono con Bambino.
Un segno araldico è visibile nelle corone incorniciate dalle aureole, purtroppo la bellezza dei panneggi è condizionata dallo stato non buono della conservazione, ci sono segni di imprimitura e parti di sinopia che ci lasciano taccia di un artista esperto e proiettato ad un naturalismo tardo trecentesco.
Questo affresco purtroppo molto danneggiata rappresenta forse l’elemento più prezioso di questa parete.
I segni delle araldiche corone sulle teste, la ricchezza dei decori degli abiti ma soprattutto tracce di un naturalismo espressivo che ci racconta di un pittore moderno e capace.
Non sfugge ad un occhio attento la differenza con gli altri affreschi più o meno coevi, dove la rappresentazione appare più incerta, con molte influenze bizantineggianti; a volte si percepisce una ingenuità degli artisti locali nelle costruzioni formali soprattutto nelle costruzioni geometriche dei troni.
Ciò che sorprende è la fedeltà ad una iconografia puntuale, come nel caso delle Madonne in trono con il Bambino benedicente in una solenne postura, il manto mariano orlato con il prezioso dell’ermellino, allude alla virtù della purezza, calzature con una notevole punta segno di nobile lignaggio, in grande uso nel costume medievale.
La Madonna della Misericordia accoglie, sotto il suo manto, una confraternita e un vasto popolo di fedeli, come dalla leggenda di Santa Brigida di Svezia 1373 “il mio ampio mantello è la misericordia di mio Figlio venite figli a ripararvi…“.
Non poteva mancare la narrazione della Santa Casa di Loreto.
La tradizione vuole ricordare un evento straordinario e miracoloso.
La leggenda narra del maggio 1291: Nazareth e tutta la Palestina si trovavano sotto il dominio dei Turchi.
Secondo la tradizione, alcuni angeli prelevarono la Santa Casa e la portarono via in volo, lasciandola, il 10 maggio 1291, a Tersatto (un quartiere della città di Fiume, in Croazia), ma il luogo non era sicuro, ed allora, ecco ritornare gli angeli per un nuovo viaggio.
Questa volta, verso Ancona, nel 1296 approdarono a Loreto: il luogo è consacrato dai numerosi pellegrini, fedeli al santuario Mariano più famoso dell’Italia centrale.
Questo episodio è narrato con le mura della Santa casa, in alto la Madonna con il Bambino.
Ci sono dei riferimenti ad una santa come si legge dalla scritta in alto a sinistra, “Montonia de Rodolfo fece fare questa Sant’Agata“.
L’immancabile Sant’Antonio Abate compare più volte negli affreschi, e in una piccola preziosa tela.
La curiosità in un affresco, il Santo si presenta con la sua iconografia tradizionale qui in compagnia di un maialino che oggi riconosciamo con la pregiata razza di Cinta senese, e una giovane giumenta.
La pittura si muove dalla cultura post-bizantina ormai superata, si conferma una ricerca sempre naturalistica, le espressioni appaiono ingenue ma sono assolutamente autentiche nell’iconografia, fedele al panorama culturale che si diffonde nei territori limitrofi.
Una pittura che, se pur non ben conservata, ci offre una parete ricca di presenze di devozione della comunità; si può pensare ad un “orror vacui“, la paura di lasciare dei vuoti.
Queste opere si possono datare nel XIV e intorno alla metà del secolo.
Sicuramente la parete più affascinante per la coerenza stilistica è sul lato opposto, è anche la più ben conservata.
Siamo nell’anno 1506 come testimoniano alcune scritte votive collocate in alto delle cornici delle scene narrate.
Le pitture sulla parete del nuovo ingresso sono incorniciate da semplici bande colorate, si ammira il martirio di Giovanni Evangelista per mano dell’imperatore Massimiano.
La storia è un falso storico, ma molto rappresentato, per la forte suggestione del martirio provato dall’immersione di Giovanni nel grande caldaio di olio bollente.
Pittura narrativa, elegante e suggestiva: tutti i partecipanti alla scena sono giustapposi.
In alto in un piccolo riquadro è scritto il nome del committente Marcantonio di Nardo, che chiede sostegno al santo per il suo trapasso.
Sopra la porta nuova, ci sono San Rocco e Sant’Amico, la cui immagine è, purtroppo, tagliata per favorire la realizzazione del nuovo ingresso.
Segue una Madonna in trono con Bambino tra Sant’Antonio di Padova, e ancora Sant’Amico protettore dei boscaioli, chiudono la parete un Santo o beato (è probabile che si tratti del beato Maio di Gualdo Tadino), raffigurato con nobili abiti del tempo per sottolineare il rango di questo amministratore, che lascia la sua carica pubblica per avviarsi ad una vita evangelica tra le vallate dell’Appennino.
Questa parete si arricchisce di una poetica Santa Maria Egiziaca, e ancora di un Sant’Antonio abate protettore degli animali ma anche invocato per le malattie della pelle (sfogo di Sant’Antonio).
È la mano di un solo pittore, elegante, raffinato che guarda al superamento del gotico verso un Rinascimento “eccentrico” come lo storico Longhi apostrofava il Rinascimento delle periferie.
Sull’altare ornato da colonne di legno dorato di stile seicentesco, si colloca una grande tela, il tema è la Madonna con il Bambino che distribuisce il rosario, nel folto gruppo di fedeli si scorgono i Santi Domenico e Caterina da Siena.
Sotto la Madonna in trono un cartiglio porta la scritta: “O Maria Flos Virginum Velut Rosa“.
Nella cornice si inseriscono le 15 scene che narrano i misteri.
Chiudiamo questo ciclo pittorico con la bella tela della Madonna con Bambino, Angeli che incoronano Maria, ai lati Sant’Antonio e Santa Lucia.
L’opera è stata attribuita all’artista camerte Camillo Bagazotti, non conosciamo il Committente.
Nella visita apostolica avvenuta, nel 1573 il vescovo di Ancona Pietro Camaiani, annota la bellezza procacie della Madonna, si può presumere che le regole del tempo post-Conciliari suggerissero una nuova forma del velo, con il panneggio adagiato sul seno.
Tutte le figure sono state magistralmente eseguite con ricchezza di particolari iconografici, singolare è la figura di Sant’Antonio di profilo dove la luce mette in evidenza i segni dell’invecchiamento, fa da controcanto la bellezza della giovane Santa Lucia, agghindata da un abito alla moda del tempo.
Nelle mani la Santa tiene un piccolo vassoio con i suoi occhi.
L’artista è molto attento agli sguardi e alle mani dei protagonisti, stratagemma che crea una forte empatia con lo spettatore.
La chiesa è ricca di apparati sacri che hanno mantenuto nel tempo il segno del dono da parte dei fedeli.
La chiesa di Santa Maria di Laverino per secoli è stata sotto la diocesi di Nocera Umbra, solo nel 1986 è stata trasferita nella Diocesi di Camerino.
Il bene architettonico e artistico è affidato alla Sovraintendenza dei Beni Culturali di Ancona.
Nota
Il testo è stato realizzato da Feliciana Menghini che ringrazio.