Pieve di San Pietro al Cimitero o Pieve Vecchia di Ginestreto – Ginestreto (PU)

La chiesa è sconsacrata per una visita rivolgersi al parroco della parrocchia di Santa Maria Nuova di Ginestreto.

 

Cenni Storici

Situata in posizione collinare come cappella cimiteriale, la pieve è oggi sconsacrata e riversa in stato di semiabbandono.
Il suo degrado incominciò quando, verso la fine del XIV secolo, l’arciprete Lodovico Schirpi trasferì la sede parrocchiale dalla vecchia pieve nella chiesa edificata dentro le mura del “castello” di Ginestreto, intitolandola “Santa Maria Nuova e San Pietro Apostolo” e oggi chiamata “San Pietro in Rosis“.
La sua collocazione rurale, fuori dal “castrum” di Ginestreto, testimonia di essere stata in tempi remoti un luogo di culto per le tante famiglie che vivevano sparse in campagna e si dedicavano alla terra.
Il termine “Pieve“, appunto, deriva dal latino plebs, che erano per i romani coloro che facevano parte della categoria opposta al patriziato, quello che oggi chiamiamo “popolo“.
La pieve diventa, dunque, un luogo di espressione sociale e religiosa dove i contadini, inizialmente, insieme alla parola evangelica praticavano ancora antichi riti agrari legati alla Madre Terra.
Il “plebato“, invece, era il territorio che faceva capo alla pieve sia per le funzioni religiose sia per i problemi di carattere sociale e civile.
Alla pieve inizialmente facevano capo gli attuali territori alla destra del fiume Foglia di Montelabbate e Sant’Angelo in Lizzola e parte di quello di Monteciccardo.
Con il sorgere della vicina abbazia di San Tommaso in Foglia, tutta la zona di Montelabbate – Apsella fu sottratta alla pieve vecchia e da allora i monaci si gestirono indipendentemente i propri territori. Si narra che nel 1390 l’arciprete di Ginestreto Pietro di Guidicino in ginocchio davanti all’abate dovette rinunciare alle chiese di San Quirico e San Martino di Montelabbate.
Con la riduzione del territorio vennerono meno anche le entrate per la pieve, che pian piano incominciò il suo degrado.
Nel 1565 l’arciprete dell’epoca trasferisce il titolo e il fonte battesimale nella chiesa interna alle mura del borgo.
La pieve cessa di essere chiesa matrice del circondario e perde parte delle donazioni.
La prima testimonianza di evangelizzazione del territorio di Ginestreto è un’urna funeraria ritrovata in una vicina casa colonica e che aveva la funzione di abbeveratoio per gli animali.
Questo antico sarcofago è un’interessante testimonianza di arte longobarda e visigota e viene fatto risalire al VII-VIII secolo.
All’epoca l’arcivescovo di Ginestreto Palazzi (1715-1736) lo fece portare all’interno della pieve.
Nel 1775 fu offerto in dono al Vescovo Diocesano e collocato nell’atrio del palazzo vescovile e dal 2002 si trova nel Museo Diocesano di Pesaro.
Il sarcofago è pieno di immagini simboliche: tra le due lettere greche alfa e omega poste alle due estremità del lato orizzontale dell’urna sono incisi due versetti del salmo 106, 16 della Bibbia:
la destra del Signore mi diede forza/la destra del Signore mi innalzò“.
In mezzo alle immagini dei due santi martiri probabilmente San Terenzio e San Decenzio è raffigurata la mano benedicente che si alza da un nodo di Salomone.
Le altre figure allegoriche rappresentate sono:
il drago che si mangia la coda, i due cervi che si fronteggiano e si abbeverano alla fonte della vita, il leone e il cervo pacificati, un ariete e una volpe e un altro drago ancora.
Sul retro ci sono altre figure di religiosi che esorcizzano un indemoniato o probabilmente si tratta del Cristo vincitore sul demonio.
 

Aspetto esterno

Le origini della pieve risalgono tra la fine del ‘900 e i primi del 1000, anche se il restauro del XIII secolo cambiò notevolmente il suo aspetto.
La commistione di mattoncini e pietra arenaria è stata opera di abili scalpellini che ne hanno saputo fare un ottimo esempio di architettura armonica.
Rimane, a testimonianza del suo antico passato, l’absidiola semicircolare di epoca romana.
L’abside, rivolta ad oriente, è solcata da tre piccole monofore ad arco a tutto sesto, leggermente strombate per permettere un’entrata maggiore di luce solare.
Verticalmente è segmentata da sei lesene; mentre nella sua parte alta presenta una cornice che la percorre per tutta la sua larghezza in pietra modanata costituita da una fascia scolpita di piccoli rombi che si susseguono.
Subito sotto a completare il merletto ci sono tante piccole protome con volti umani, animali e motivi geometrici che sostengono una successione di archetti pensili in cotto che si intersecano tra loro e che preannunciano uno stile gotico.
Un altro indizio di arte gotica lo si trova sulla fiancata destra dove due finestroni lunghi e trilobati sono riferibili all’arte gotica del trecento o primo decennio del quattrocento.
In questo vecchio edificio, consumato pian piano dal tempo e dalle vicende storiche, si possono ritrovare così, come se fosse un puzzle, elementi di architettura altomedievale, gotica, romana e al suo interno capolavori rinascimentali.
A fianco, sul lato destro della pieve, c’è il cimitero che risale all’ottocento; sul lato sinistro c’è quello che rimane della casa canonica annessa alla pieve.
La facciata rimaneggiata nel settecento è divisa in tre sezioni da paraste in mattoni prive di capitelli.
 

Interno

L’aspetto interno della chiesa è piuttosto sobrio, sul lato sinistro, prima del presbiterio, vi è un arco a sesto acuto che probabilmente tempo addietro ospitava un secondo altare.
L’abside è affrescata ed è preceduto da un arco a pieno centro con ghiera in mattoni.
Il tetto è in legno con struttura a vista: cinque capriate sostengono l’orditura delle travi.
In seguito ai restauri degli anni ’90 è stato realizzato un altare in marmo, sorretto da tre colonne in marmi differenti, con basamento in marmo bianco venato.
La mensa è composta da uno strato superiore in marmo nero su una base in marmo bianco.
Alla fine degli anni ’80 quando l’edificio riversava ormai in condizioni deplorevoli (entrava persino acqua dal tetto), si decise, grazie ad un consistente finanziamento nel 1989, di intervenire con un restauro della pieve.
Nello stesso periodo risale, inoltre, un tentativo di furto di uno degli affreschi.
Negli anni 1992-1993 ad opera della Fondazione Scavolini la pieve fu sottoposta a lavori di restauro sia delle murature che degli affreschi.
I dipinti oggi visibili all’interno della pieve vennero scoperti nel 1851 durante un intervento di restauro, in quanto erano stati coperti in epoca controriformista verso la fine del ‘500.
Alcuni di questi si sono deteriorati e sono poi ritornati nuovamente alla luce insieme ad altri scoperti nel recente restauro degli anni ’90.
Questo patrimonio artistico è databile tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, anche se non è escluso che gli attuali affreschi non nascondano a loro volta dipinti ancora più antichi.
Il XV secolo per chi abitava in campagna fu un periodo di paura e angoscia a causa delle ricorrenti epidemie che si succedevano e il popolo contadino, ancora legato ai culti magici della natura, con le sue preghiere affidava la protezione della terra e dei suoi prodotti a santi taumaturghi, con il compito di preservarli da calamità e malefici.
I santi che più comunemente venivano invocati nella tradizione popolare erano: San Cristoforo (la cui immagine si diceva preservasse da ogni male in chi l’avesse guardata di primo mattino), Sant’Antonio (che preserva da malattie e disgrazie gli animali e la relativa famiglia che se ne occupa) e ancora i Santi Rocco e Sebastiano (che proteggono dalla peste).
Il culto dei suddetti santi rispecchia i problemi reali a cui il popolo doveva far fronte: malattia, mortalità infantile, carestie, pestilenze e il miracolo da parte del santo attiene sempre alla quotidiana materialità del vivere fatta di lavori agrari, attrezzi agricoli, bestiame.
Non stupisce, quindi, se alla fine del XVI secolo l’arciprete Schirpi decise di coprire con la calce immagini di religiosità popolare che per la Chiesa erano testimonianze di credenze e superstizioni pagane popolari.
Sulla parete destra Schirpi lascia la testimonianza del proprio lavoro di copertura, accanto un altro frammento con angeli e due stemmi in cui si legge:
VIRGINI DEIPARAE OB AVUNCULOR(UM) / I SUOR(UM) MEMORIAM IOANNIS BENEVOLI / ATQ. IOANNIS MARIAE CASTELLETTI / PISAURI QUONDAM ARCHIDIACONOR(UM) /HUIUS QUOQUE PLEBIS RECTOR LUDO / VICUS SCHIRPUS DICAVIT / ANNO DOMINI MDLXXII
(alla Vergine Madre di Dio in memoria dei suoi avi materni Giovanni Benivolo e Giovanni Maria Castelletto di Pesaro un tempo arcidiaconi di questa stessa pieve il rettore Ludovico Schirpi ha dedicato nell’anno del Signore 1572).
La dedica si riferisce ad una perduta Madonna col Bambino, il cui affresco, come quello del Redentore dipinto sulla parete opposta, fu sovrapposto alle immagini affrescate di carattere più popolare.
Le pitture non occupano una posizione logica sulle pareti, sono affreschi di natura votiva e seguono i modelli della pittura marchigiana del primo rinascimento: sono racchiusi in riquadri rettangolari con cornici geometriche, arabescate e con sfondi di finto tessuto; oppure ancora riprendono lo stile dei santini delle piccole miniature.
Di particolare rilievo artistico-culturale è l’affresco più antico rinvenuto sull’arco dell’abside della Madonna della misericordia coi santi Pietro e Ubaldo (attribuito a Giovanni Antonio da Pesaro) che dalla tradizione popolare viene venerata per la protezione da ogni forma di pestilenza; numerose infatti furono le epidemie del ‘400 che colpirono la regione delle Marche.
Nel dipinto la Madonna della misericordia o del soccorso viene raffigurata con un ampio mantello, con il quale protegge l’umanità peccatrice dall’ira di Dio (a sinistra gli uomini, a destra le donne).
Il dipinto è datato intorno al 1450; si legge solo la scritta “SANCTUS TOBALDUS” in basso a destra.
Oltre alla Vergine i santi taumaturghi invocati in età medievale per la protezione dalle pestilenze erano san Sebastiano e san Rocco.
In particolare san Sebastiano compare nei dipinti sempre più spesso da quando a partire dal ‘300 viene iconograficamente dipinto con le frecce, a testimoniare il suo martirio: egli uscì indenne dal supplizio delle frecce a cui lo aveva condannato l’imperatore Diocleziano e per questo viene invocato dalla gente come protettore dei castighi (frecce) divini.
Poi nel quattrocento ad esso si affianca la figura di san Rocco che spesso viene ad identificarsi con quella di san Sebastiano in quanto protettore dalla peste.
Un altro santo particolarmente venerato dal popolo era sant’Antonio per la protezione contro l’herpes zoster.
Si racconta che nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino ad arrivare in Francia, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa affluivano a venerarne le reliquie folle di malati, soprattutto affetti da ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segale, usata per fare il pane.
Il morbo, oggi scientificamente noto come herpes zoster, era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” (“fuoco sacro“) per il bruciore che provocava.
Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e venne fondata una confraternita di religiosi, l’antico ordine ospedaliero degli “Antoniani“.
Al santo spesso viene affiancata anche l’immagine di un porcellino, in quanto il suo grasso veniva usato per curare quello che oggi viene chiamato “fuoco di s.Antonio“.
Per questo motivo, nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.
Il Papa accordò agli Antoniani il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade; nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Una leggenda popolare narra che sant’Antonio si fosse recato all’inferno per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo.
Mentre il suo maialino, sgattaiolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a forma di “tau” e lo portò fuori insieme al maialino recuperato: donò il fuoco all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Nella pittura iconica viene rappresentato in vesti episcopali con mitria e pastorale probabilmente in riferimento al suo epiteto di abate usato come sinonimo di padre del cristianesimo orientale.
Una scoperta sorprendente è quella fatta nel catino absidale dove compaiono elementi simbolici riferibili a prototipi paleocristiani rielaborati nell’età umanistica: un sole raggiante al centro del catino absidale che è spartito da riquadri con cornici dentro le quali sono inserite losanghe e rosette agli angoli.
La pala raffigurante la Madonna con bambino e i santi Rocco, Pietro, Ubaldo e Sebastiano che prima si trovava nella pieve ed era al posto della Madonna della misericordia, per ragioni di sicurezza, nel 1960 venne spostata all’interno della chiesa parrocchiale di Ginestreto.
Restaurata a cura della Soprintendenza di Urbino venne esposta nella mostra “Restauri nelle Marche” del 1973; da quel momento rimase nella Galleria nazionale delle Marche del palazzo ducale di Urbino.
Dal restauro è stato reso possibile interpretare la scritta posta sotto il trono della Madonna: “Bartolomeo di Gentile ha dipinto nel 1499“.
Bartolomeo di Gentile va annoverato tra gli allievi della bottega di Giovanni Santi, padre di Raffaello.
Sulla parete di sinistra della chiesa, da sinistra quello che rimane del primo affresco è una Madonna col Bambino e i santi Bernardino, Biagio, Ubaldo(?) e Antonio Abate (?) delimitato da una rozza cornice.
Segue un frammento con sant’Antonio Abate (1477); in successione due riquadri uno sopra l’altro: quello superiore in parte rovinato fa intravedere una schiera di angioletti intorno all’Eterno; quello sottostante è un Crocifisso coi santi Sebastiano e Antonio.
Precede l’arcone un affresco con i santi Sebastiano e Rocco, con la scritta in epigrafe:
M.ANTONIO DE MEGALOCTO FE DEPINGERE 148(5).
Sopra di questo vi è un Cristo redentore della fine del ‘500 con scritto:
PIETATIS ERGO (LUD) OVICUS SCHIRPUS DICAVIT.
Nell’intradosso dell’arco a sesto acuto vi sono i visi di Cristo e degli Apostoli.
Sulla parete di destra da sinistra sono raffigurati Tobia (o Tobiolo) e l’Angelo custode (l’arcangelo Raffaele) che è molto rovinato.
Seguono una Madonna col Bambino rovinato nella parte superiore, mentre nella parte inferiore si legge L.CATERINA; una Madonna del latte parzialmente rifatta con una scritta illeggibile; una Madonna con Bambino e san Sebastiano con scritto:
BELARDINUS ET IOHANNES ANTONIUS (QUONDAM?) BARTOLOMEI FATII FECIT FIERI AD MEMORIAM (PATRIS SUI) 1499.
Sopra la porta laterale è affrescato un sant’Antonio Abate datato 1503, l’unico a figura intera.
A fianco nella nicchia, distrutta qualche anno fa da malviventi, vi è una Madonna col Bambino.
Seguono in tre riquadri uno attaccato all’altro: una Pietà, un san Sebastiano, una Madonna col Bambino.
Sopra vi è un dipinto frammentato di una Madonna col Bambino, san Rocco e un perduto sant’Ubaldo di cui resta la scritta con il suo nome e la data 1505 con scritto: HOC (…) E FA PER V(OTO) DE D. GIUVANO DALUMOTE (?).
Il bordo del trittico si sovrappone a quello dell’affresco successivo in cui vi sono il Crocifisso, la Madonna e san Lorenzo con la scritta:
HOC OPUS FIERI IHERONIMUS FRANCISCI MCCCCLXXXV DIE XXVI OCTOBRIS S. LAURENTIUS.
 

Curiosità

Attualmente la pieve viene aperta solo nel giorno dedicato a Ognissanti, altrimenti nella sua intimità svolge la funzione di “sala d’aspetto” per i defunti che devono essere seppelliti nel vicino cimitero.
Per visitare la chiesa rivolgersi al parroco della parrocchia di Santa Maria Nuova di Ginestreto.
 

Fonti documentative

“Gli affreschi di Ginestreto”, Costellazione n°3, a cura di Girolamo Allegretti, Pesaro 1989
“La provincia dei cento borghi”, vol.9 “tra terra e mare 2″, a cura di Daniele Sacco, Metauro Edizioni Srl – Pesaro
“Viaggio nel ducato di Urbino”, Carlo Inzerillo, Edimond
www.fondazione.scavolini.com
www.turismo.pesarourbino.it
 

Nota

La galleria fotografica ed il testo sono stati realizzati da Camilla Zoppis.
 

Mappa

Link alle coordinate

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>