Mulino Lautizi Giuseppe – Montegiorgio (FM)

Cenni Storici

Il mulino, apparteneva ai Marozzi, poi nel 1959 fu acquistato da Lautizi Oreste passando in eredità al figlio Giuseppe, attuale proprietario.

Diatriba tra Belmonte e Montegiorgio incominciando così:

“Della guerra di Montegiorgio e Belmonte.
Noi di Belmonte dolendoci degl’interessi ed avversione tenuta contro de’ nostri fratelli vicini alli “Giorgini” non avvertendo alli [nostri] futuri danni per la sicurtà del fiume Tenna quale tenemmo per confine tra Belmonte e Monte Giorgio. Ma il Demonio Maestro di ogni vizio entrò in mente di alcuni di Montegiorgio. come di Messere Piermatteo detto Conco e Matteo di Zenobi, Marino di Calisto ed altri, impadronitisi [del governo] di questa Terra, ed inimici Capitali del Comune di Fermo, e suo Stato, pensando impadronirsi degli animi de’ Consiglieri ottennero il loro volere [la maggioranza dei voti], e così risolvettero di rubare una possessione detta la Boara, perché la Comune di Fermo, dicevano essi, oggi non è più quella che era. I castelli sono divisi, e non badano più a questo, massime che le Scritture della Boara non si trovan più perché ser Angelo Bongratio è stato nell’archivio di Fermo quando visitò Pieraloisio e non le trovò, sicché non potrà lo Stato mostrare alcuna causa di ragione e contratto di essa Boara, così noi faremo [otterremo] una bella possessione. Mandarono oratori al signor Valerio Orsini in Padova a dirli che renda la possessione della Boara con dirgli che quelli che gli l’hanno data non glie la potevano dare, e così fu convenuto e concluso nel Consiglio tenuto in Montegiorgio fra essi. Quindi fu ordinato che si scotesse [coltivasse] detta Boara, e ne fu assegnato tanto per persona a quelli che volevano lavorarla. Questa [decisione] non piaceva altro che a quelli che non pratticavano in questa Boara, ma a quelli che ci pratticavano non gli piaceva perché erano pochi in Consiglio non potevano far prevalere il contrario. Nel mese di febbraio e di marzo un certo di Monte Giorgio che si chiamava Sbragia cominciò a scuotere [coltivare] detta Boara e questo fu nel 1541, al tempo di Messere Bernardino Russo di Force Governatore”.

Fu seminato il miglio e “la Comunità di Monte Giorgio portava con la treggia, detto miglio a S. Arcangelo, Chiesa nel tenimento di Monte Giorgio” ed il Lucic annota ancora, non senza compiacimento: “[il] quale miglio poi tutto si guastò per essersi riscaldato”. Il cronista ci riferisce il pensiero dei montegiorgesi sulla questione: “[essi] dicevano: Che volete voi altri di Belmonte? Il vostro pascolo sia fino al ponte di Mons. Giorgio, senza pagare alcun denaro” e “[i montegiorgesi] volevano fare l’istrumento [l’accordo] con noi perché noi ne fossimo stati quieti e noi [belmontesi] per non essere chiamati traditori dello Stato di Fermo non mai lo volessimo fare, pensando sempre che lo Stato non [ci] abbandonasse, così come per più consigli era stato vinto [votato] ed ottenuto, [ma] al fine ne ha lascito in mezzo dell’Inferno”. In quel periodo, esattamente il 30 di agosto, i priori di Montegiorgio con una lettera alquanto brusca formalizzarono il comune sentire e chiesero ai priori di Belmonte di adoperarsi affinché i belmontesi si astenessero dal pascolare il loro bestiame “di qua da Tenna nel territorio nostro”, “come pure si astenghino di fare nel nostro territorio case, capanne, grotte e altro ridotto e quelli che l’avessero debbono tutto guastare in termine di un mese”. La reazione dei belmontesi, specie di coloro che avevano costruito case sul territorio di Montegiorgio fu molto negativa, e Montegiorgio incaricò allora di catturare gli animali che pascolavano abusivamente: “quattro officiali dei più cattivi uomini che fossero… quali furono un tale Scarpetta Vecchia, Giovanni di Sante, Pietro del Piatto e Bartolomeo di Morte” (i nomi sono più che sufficienti a definire i soggetti!), i quali agirono nel senso voluto da Montegiorgio non andando troppo per il sottile. I belmontesi reagirono deviando il corso dell’acqua che alimentava il mulino di Montegiorgio, e ci volle l’intervento di un Commissario del Governatore per ripristinare le cose, ed il lavoro fu eseguito da molti montegiorgesi che erano intervenuti con le zappe. I montegiorgesi seminarono ancora la Boara e nel 1542, il 3 di giugno, “a due ore di notte” più di mille persone tra belmontesi ed altri di Gualdo, Falerone, Monte Vidon Corrado, Grottazzolina, Monte Giberto, Servigliano e Magliano cominciarono a fienare il grano “e così tutta notte passò in ordinanza cavalli e fanti e l’annitrire de’ cavalli e l’accotare delle falci si udiva qui a Belmonte ed anche a Montegiorgio”. I montegiorgesi protestarono ed il governatore fece arrestare e condurre a Lapedona alcuni belmontesi, che per intervento di Lucido furono rilasciati dietro promessa di presentarsi al momento del giudizio. Diversamente da quanto era accaduto con Belmonte, la questione della Boara tra Fermo e Montegiorgio fu chiarita attraverso un accordo stipulato nel 1542, nel quale si stabiliva che “tutti i possedimenti tanto coltivati quanto incolti ed i pascoli o boschi nella pianura del fiume detta La Boara sempre ed in ogni tempo rimangano e Il mulino di Viarie, siano incolti ad uso di pascolo del Comune di Fermo e del suo Stato e degli Uomini della detta Terra di Monte [Giorgio]”. Nell’accordo si definivano inoltre i confini della Boara “a principio del Vallato che si chiama – lo vallato di Antonio Pieri – sito nel Territorio di Montegiorgio presso i possedimenti di Sante Nicolutii dalla parte verso Montegiorgio e dall’altra parte verso il Fiume Tenna”. Si deduce dal testo dell’accordo che Montegiorgio, come Fermo, aveva diritti sul territorio della Boara e che il resto del territorio rimaneva di proprietà dei Comuni che con esso avevano continuità territoriale. Il Comune di Belmonte non fu soddisfatto della situazione definita e dopo l’invernata, nella primavera del 1544, “si cominciò l’una con l’altra parte a pizzicare”. I montegiorgesi abbatterono una casa abusiva, fuorusciti di Falerone danneggiarono il mulino di Montegiorgio, ci fu uno scontro sanguinoso tra sbandati di Montegiorgio ed abitanti di Magliano.

Nell’anno 1545 le cose precipitarono verso il peggio. Così narra il Lucido:
“Il giovedì a sera alle tre ore di notte che fu li 10 di maggio 1545 essendo il detto Messere Piermatteo alias lo Conco andato prima a Macerata Ambasciatore del Monte per ottenere dal Governatore di poter fare l’Armata per la Festa di Maggio quale era la domenica prossima ed ottenuta che l’ebbe tornò al Monte e portò due bande per fare detta armata perché erano passati molti anni da che non l’avevano più fatta, e questa volta fosse stata più bella di tutte le altre fatte in addietro. Venne con lui Messere Pier Niccola della Mandola ed uno da Sant’Elpidio a mare e quando furono di qua di Francavilla gli vennero incontro quattordici giovani armati dal Monte, e gli fecero gran festa, così tornò al Monte il giovedì e ser Pier Niccola venne a Belmonte con quello di Sant’Elpidio per loro affari. E per quanto è stato provato il detto Piermatteo il giovedì sera in casa sua fece rialto e stravizi. Convocò li suoi compagni e fece consiglio di incendiare il nostro molino e poi far festa e ridere e beffare non prevedente che se l’Africa pianse, l’Italia poi non rise. E così sapendo che il nostro molino non era più guardato, andò con 100 cavalli e muli per passare Tenna ed alle ore tre di notte incendiò il nostro molino. Sul posto un certo Giovanni di Simone, stando fuori, s’accorse quando calarono dalla palombara di Calisto perché ivi abbaiavano i cani di Bernardino Vinutto (?) di Monte Fortino, il quale ancor lui vide tutto, ma chiamato in giudizio, per timore della pelle non volle mai dirlo. Ma Dio lo castigò, che pochi giorni appresso ammalò, perdé la parola e morì. Un tal Giovanni di ser Angelo alzandosi al rumore vide costoro ammutinati sopra il lemite da capo la possessione di Grisostimo della Mandola, e li Giorgini s’accorsero e dicevano di non calare altri, poi li fecero coraggio dicendo – Non abbiamo paura che abbiamo con noi Piermatteo, che di bugia fu verità e dalla verità fu bugia, e così calarono di sotto e fecero l’incendio. Giovanni suddetto che si era accorto, per paura non avvisò Belmonte, che se l’avvisava si sarebbe potuto smorzare il fuoco almeno da qualche parte. Ciò non ostante il Capitano Bertacchino se ne accorse della fiamma, ma dubitando di qualche imboscata non volle calare, ed il molino arse sino al giorno. E poi, dato il segno con la campana, avvisò il Governatore il quale ne mandò a dire che fossimo stati forti perché egli subito veniva. Fu avvisato Servigliano ed altri vicini Paesi. Prima che si facesse giorno il Capitano cacciò li nostri armati lì nello spiazzo e tutti ben forniti di arme, e monizioni poiché avevano pronte più di libre cento di polvere e messi tutti in ordine eravamo circa 150. Nel far del dì venne il Governatore di Monte Ottone con 80 armati, parlò con il Capitano e poi entrò dentro la Terra [di Belmonte] con la truppa ed il Capitano marciò contro il Molino di Monte Giorgio dove era la Guardia, poiché dopo di avere incendiato il nostro andò a guardare il loro, e teneva anche S. Angelo. Quando le Guardie viddero li nostri, tirarono due botte d’archibugio, saltarono fuori ed abbandonarono il Molino, così li nostri entrarono dentro il molino loro con le scale e fecero un’aspra vendetta riducendo in cenere tutto quello che poteva essere capace di ardere, macellarono coppi, flagellarono persino le macine, portassimo via cereali, e qualunque ferramento, restando le sole muraglie in parte fracassate che era un pianto a vedere tale rovina, poi ci ritirassimo alla Boara. Intanto, benché fosse sereno, parve che fosse cosa miracolosa: all’improvviso venne una pioggia che pareva un diluvio, ed era ora di terza quando noi abbandonassimo il molino incendiato e andassimo in ordinanza alla Boara canto il Molino, e se non era la pioggia lì veniva tutto lo Stato perché le lettere erano state già spedite da per tutto, e raccomandate dal Governatore. Ciò non ostante venne al tardi Magliano con bandiere e tamburi [e anche] Petritoli e stassimo saldi non ostante la pioggia. Veniva la gente ed eravamo non meno di 2.000 e così passammo di la dal Monte col battere de’ tamburi, e bandiera, che portava Francesco di Marinangelo da Belmonte che l’avevamo avuta dalla Comunità di Falerone per la nostra Santa Croce li 3 di maggio ed il tamburo parimenti, che non avevamo mai riportato alla Comunità di Falerone. Un altro tamburo fu preso in casa del signor Valerio Orsini a Fermo e così quello che teneva Sant’Angelo lasciò la chiesa e fuggì via, e fu presa la via in contrada di Maragnano abrugiato. Cominciammo a rovinare case, [dare] guasto agli alberi in tutta quella riviera sino alla Palombara di Marino di Calisto, la quale fu buttata tutta a terra con travi ed altri ingengi, e più calarono poi quelli di Falerone e Monte Vidone dalla parte di sopra verso Santa Susanna, con tutti quelli Paesi di là, e se noi andevamo dritti al Monte perché facevamo segno di dirigersi su a Monte Giorgio e li Giorgini erano disposti ad abbandonare le loro case e fugirsene verso Rapagnano Monte San Pietro c Monte dell’Olmo. A Vespero era fatto l’offizio e seguitando tutti quelli dì a piovere, altrimenti avessimo dato il Sacco al resto ed alla Terra medesima di Monte Giorgio, da dove venne il Governatore, e fece comandamento e precettò tutti ed a fatica fece partire li fanti. Quelli da Petritoli erano in numero di 200 e volevano per forza andare ad assalire Montegiorgio, ma il Governatore tanto li persuase a ritornarsene alla case loro e tutti tornarono come tornassimo noi a Belmonte. Il giorno seguente, ad istanza di Montegiorgio venne di Macerata M.e Girolamo Linzio (?) Commissario e parlò con Calisto Governatore dello Stato lì al prato di Monte Verde, appresso il Molino nuovo e le case di Cicco di Gasparo ed ivi furono fatti grandi comandamenti sì all’una che all’altra di non offendere e di non innovare cosa alcuna nella Boara. Poi quel Commissario con li Giorgini, fingendo di ritornare a Monte Giorgio, andarono al loro molino abrugiato, e allocarono i cavalli in quelle parti sino alla possessioni del signor Valerio Orsini. Lì presero prigioni Tommaso e Vito di Bernardino di Santi da Belmonte quali erano in quella possessione lavoratori, e li menarono a Monte Giorgio ad essere esaminati. Dopo due giorni furono dimessi e il detto Commissario cominciò a fare tale Pesame contro quelli che erano andati alla guardia del loro molino li quali avevano prima incendiato il Molino di Belmonte. Dico che se il detto Commissario poteva speditamente seguire il suo officio, si scopriva prima chi avesse fatto l’incendio del nostro molino, ma quelli del Monte, accorgendosi di questo, subito per la via di Macerata lo revocarono e così rimase la causa”.

Il fatto fu clamoroso, anche perché la gente era stata convocata con lettera “raccomandata” dal governatore, che avrebbe dovuto placale e non eccitare gli animi. Ne seguì un processo che fu gestito dal commissario Benedetto de Benedictis il quale in breve tempo convocò molti testimoni e i belmontesi a Mogliano, e con la prigione per alcuni, e la corda in un caso, determinò quali paesi avevano partecipato ai fatti eli Montegiorgio, e li condannò al pagamento di 34.700 ducati, così suddivisi: Falcione 2.000, Magliano di Tenna 8.000, Belmonte 8.000, Monte Giberto 1000, Rapagnano 1.000, Cerreto 700, Collina 1.500, Monte Leone 1.500, Monte Vidon Corrado 1.000, Grottazzolina 1.500, Petritoli 2.000, Montottone 2.000, Monsampietro Morico 1.500. I paesi condannati si organizzarono per ridurre l’importo da pagare e mandarono delegati a Roma, ma l’esame della questione richiese tempo e ai delegati od oratori “a tutti mancò il denaro, ed alcuno si ammalò” e, seguita il Lucido, “rimasi io solo”. Il nostro riuscì ad ottenere il voluminoso fascicolo del processo, ben 1.800 carie, e “dove faceva buono per noi ne tacevamo annotazione segnandone la carta e paragrafo” e per mezzo di tale estratto riuscì ad ottenere dal cardinale Farnese una “composizione” molto favorevole a 3.000 ducati per tutti i condannati, a fronte dei 34.700 di partenza. Il Lucido annota che la “composizione” raggiunta era molto favorevole “perché se si faceva Terra per Terra andava più in alto, subito [considerando] che Magliano solo si era accordato per 3.000 ducati” ed era stato ricompresso nel totale dei 3.000 ducati, con vantaggio evidente. Quando fu convocato il Consiglio dello Stato per ripartire la spesa, l’opera del mediatore belmontese non ebbe il riscontro che avrebbe meritato in quanto “molti castelli si ricusarono a questo incendio col dire “chi ha rotto il bicchiere lo paghi” …e non si trovò altro che ci desse ragione. Belmonte si trovò in guai seri, non solo e non tanto per l’aspetto economico, quanto per un risvolto prettamente campanilistico, come riferisce malinconicamente il cronista: “A tutto questo [si aggiunga che] avessimo intanto delle belle dai Giorgini, rinfacciandoci alcune nostre millanterie e dell’animosità che in realtà fu usata e ci piegassimo a richiedergli di pagare due paoli per ogni famiglia, e il resto lo avressimo pagato noi, e poi che pagassero [comunque] quello che ad essi fosse piaciuto”. Il governo dello Stato ritornò a Fermo nel 1547, con la nomina a vice legato della Marca di Paolo Ranuccio, ma, come ci dice l’anonimo cronista, Montegiorgio, Montefortino e Monte Santo (Potenza Picena) non vollero tornare sotto il dominio fermano. Questi tre paesi protestarono a Roma ed il governo centrale li concesse al legato. Una notizia di ordine economico ci informa dell’intraprendenza della nostra gente. Si tratta di un “maiolicaro” o vasaio, che aveva rapporti commerciali con Ascoli.

Lo storico Giuseppe Fabiani così riferisce:
“Altro maiolicarci ascolano, assai attivo per circa un trentennio, fu Cola Marchetti. Nel 1544 risulta unito in società con Giovanni di Pierpaolo da Montegiorgio244 e Vincenzo di Gabriele da Cossignano e acquistava vasi per il rilevante importo di 70 ducati. Nel 1559 riceveva da Girolamo di Muzio alias Pavese 60 fiorini per trafficarli m arte et exereitio figlilo et vasorun, cui avrebbe concesso la terza parte del lucro e [Quod Deus avertat, si affrettava ad aggiungere il notaio] del danno. Cili affari andarono a gonfie vele, che in capo a un biennio Girolamo riceveva 29 fiorini di utile. Segno che il Marchetti, oltre a conoscere bene il mestiere, era un accorto commerciante [vendeva anche maioliche di Faenza]”. Nel 1560, a causa di controversie tra montegiorgesi, di cui non resta documentazione, viene mandato come paciere il capitano Mariano Parisani. Nel 1562, il 7 luglio, il padre Ludovico Ferri fonda il convento dei frati del ‘Ferzo Ordine Regolare prendendo possesso della chiesa di S. Maria delle Grazie. Nella primavera del 1572 il papa Gregorio XIII annette i territori di Santa Vittoria in Matenano, Montelparo, Montelalcone Appennino, Montegiorgio e l’abbazia di Campofilone alla diocesi di Fermo. Il fatto si inquadra nella riforma strutturale della Chiesa stabilita dal concilio di Trento (1545-1563), secondo cui il centro della vita religiosa dovranno essere le diocesi e non più i monasteri. Anche in conseguenza di ciò il papa Pio V nel 1571 crea la diocesi di Ripatransone, sottraendo numerosi centri abitati all’autorità del priore di Santa Vittoria. Successivamente Sisto V crea la diocesi di Montalto, e questa due successive decisioni indeboliscono ulteriormente l’autorità dell’abate benedettino. Però le resistenze sono state fortissime e si è disputato a lungo sul fatto che alle diocesi dovessero passare i territori e non i centri. Per oltre un secolo si sono contrapposte tesi diverse tra i monaci e l’autorità pontificia centrale, ed i cardinali commendatari di Farfa, come Alessandro Farnese, Alessandro Peretti, nipote di Sisto V, chiamato Montalto e Francesco Barberini, sostennero vigorosamente le ragioni dei Benedettini. Furono convocati tre sinodi e nel 1685, al terzo di essi, indetto dal cardinale Carlo Barberini, partecipò anche don Marco Antonio Ptolomeo, arciprete di Monte Santa Maria o Montegiorgio che dir si voglia. Il fatto che nel 1685 l’arciprete di Montegiorgio partecipi al sinodo dei Benedettini testimonia che nel paese permaneva ancora un resto dello stato di nullius dioecesis goduto da diversi luoghi di Montegiorgio e per più secoli. La situazione della doppia competenza su luoghi diversi di un medesimo territorio da parte del vescovo (attraverso il parroco) e dell’abate (attraverso il priore) comportava un evidente disagio. Così nel 1740 si esprimeva in proposito l’arcivescovo di Fermo Alessandro Borgia: “Molti disordini si hanno per il fatto che tra i confini di varie Diocesi e quasi sulle loro viscere prelati inferiori nullius [cioè abati o priori], con un territorio separato, hanno attiva giurisdizione in luoghi e chiese, in persone ecclesiastiche e laiche”. Bisogna aspettare fino al 1747 per avere una definitiva sottomissione del priorato di Santa Vittoria al vescovo di Fermo. Termina in questa data anche l’ultima forma della presenza autonoma de. Benedettini sul nostro territorio. Per Montegiorgio l’ultimo atto accertato di tale autonomia è quello già dette risalente al 1685. Termina ufficialmente così la storia di una presenza, protratta si per quasi settecento anni, alla quale Montegiorgio deve la sua esistenza con:, paese, il nome, i titoli della chiesa parrocchiale di Ss. Giovanni Battista ¦- Benedetto, l’edificazione di due monumenti fondamentali per la nostra storia locale, ma importantissimi anche per la storia nazionale, quali la chiesa di s Maria Grande, ora S. Francesco e la chiesa di S. Salvatore in Cafagnano, testimoniata dai mirabili resti del portale con annessa la chiesina della Madonna degli Angeli e della sacrestia affrescata. Il convento adiacente, trasformato nel corso dei secoli dagli Agostiniani, testimonia anch’esso la presenza autorevole . rassicurante dei Farfensi. Ma credo che la testimonianza più significativa del., lunga e per molti versi rassicurante presenza benedettina a Montegiorgio, garanzia di autonomia decisionale nei confronti del potere centrale impersonato che Fermo, è restata nello spirito di molti montegiorgesi, e si esprime in quella lic\. quanto persistente insofferenza verso una certa “fermanità”, quando è intesa come mentalità accentratrice di strutture, istituzioni e servizi, che tende piuttosto ad imporre anziché a proporre e concordare.

Nel 1585 i Cappuccini iniziano a fabbricare il loro convento. Nello stesso anno, il 24 aprile, viene eletto papa il cardinale Felice Peretti ce nome di Sisto V, che poco dopo concede al convento di Montegiorgio un cospicuo finanziamento col quale viene ristrutturata la chiesa di S. Francesco. Si innalza il tetto, vengono chiuse le finestre monofore gotiche e contemporaneamente ?. aprono finestroni che interrompono la linea degli archetti pensili. I lavori di ristrutturazione della chiesa di S. Francesco obbligarono i frati a riassegnare gli altari, che richiesero prospettive e ornati più alti ed anche pale d’altare più grandi di quelle in essere. Nei primi anni del secolo successivo furono sistemate nuove ed importanti tele, come avremo modo di vedere in seguito. F’essere stato per sei anni vescovo di Fermo, l’appartenenza al medesimo ordine dei Minori Conventuali che reggeva la chiesa ed il convento annesso, deve ave indotto il pontefice ad un tale atto di generosità. Testimonia il fatto un’iscrizione su due righe situata sull’architrave del portale “Sisto Quinto pontefice ottimo massimo dell’Ordine dei Minori Conventua. 1585″. Il 14 febbraio 1590, i priori ed il consiglio di Montegiorgio indirizzano al cardinale Gregorio Petrocchini di Montelparo una pergamena di omaggio, nella quale ricordano tra l’altro che un gregge senza pastore è preda dei lupi e richiamandosi anche alla comune origine picena, lo invitano a proteggere loro, le famiglie ed i loro beni. In fondo a sinistra della pergamena c’è l’autografo del cardine le che dice: “Io Fra Gregorio accetto e sono contento”.

Tratto da:
“Montegiorgio, nella storia e nell’arte” a cura di Mario Liberati
 

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