Monastero di Santa Cecilia – Città di Castello (PG)
Cenni Storici
Quest’anno ricorrono i 600 anni della fondazione del monastero di Santa Cecilia all’interno delle mura di Città di Castello (1422-2022), una presenza importante nella storia castellana sia ecclesiastica che civile.
Si tratta, decisamente, di una presenza di lungo periodo, che affonda le proprie radici nel tardo medioevo e giunge fino a noi, attraversando vicende epocali quali la riforma tridentina, le rivoluzioni di fine ‘700, alle quali si accompagnarono devastanti terremoti, il conseguimento dell’Unità nazionale italiana, due guerre mondiali, il ventennio della dittatura fascista, la nascita della Repubblica, la fine della società agricola e il passaggio a quella industriale, la riforma del Concilio Vaticano II, la secolarizzazione della società, la rivoluzione informatica.
Tutto questo, continuando una vita appartata sì, ma solo apparentemente immobile.
Quando il monastero nasce, Città di Castello vive un momento di grande splendore; pur con le ombre proprie di ogni stagione storica, la città, insieme a tutta l’Alta Valle del Tevere, conosce una fase di crescita economica e demografica che a sua volta sostiene un significativo sviluppo culturale e sociale.
Nel XV secolo l’umanesimo, sia letterario che matematico, caratterizza la fisionomia culturale locale; le arti figurative sono studiate e praticate; l’economia è sostenuta dalla fiorente filiera del guado, con le fasi della produzione, della lavorazione e del commercio; tanto per dare un’idea delle caratteristiche demografiche, economiche e sociali del territorio in questo periodo basta ricordare che i due centri principali, Città di Castello e Sansepolcro, hanno ciascuno un numero di abitanti pari a quello che, nello stesso periodo, possiedono Arezzo o Pistoia.
Tale dinamismo si ripercuote anche sulla vita religiosa, in continuità con il fervore che caratterizza il basso medioevo.
Il nostro monastero, infatti, si colloca in un alveo francescano antico ormai di circa due secoli e ben presente nella Chiesa e nella società locali.
Città di Castello è capoluogo di una custodia che comprende anche i conventi di Sansepolcro, Cerbaiolo, Citerna, Montone e Umbertide; a Città di Castello, Sansepolcro, Citerna sono presenti monasteri di Clarisse; nei due centri principali, inoltre, fin dal XIII secolo vi sono fraternità di Terziari, che in alcuni casi danno vita a comunità femminili di vita comune.
L’iniziativa della fondazione del monastero si colloca nell’ambito della diffusione dell’esperienza spirituale della beata Angelina da Montegiove, nata in quella località, oggi frazione del comune di Montegabbione, nel 1357 e morta a Foligno il 14 luglio 1435.
È considerata la fondatrice del Terz’Ordine Regolare di San Francesco, dal momento che nel 1403 ottiene da papa Bonifacio IX l’autorizzazione a vivere in comunità, senza clausura, professando la regola dei Terziari approvata da papa Niccolò IV nel 1289.
Le Costituzioni antiche individuano tre pilastri nella sua spiritualità: la preghiera come luogo dell’incontro con il Dio dell’amore; la vita fraterna sempre da costruire nella semplicità, nel rispetto del lineamento di ogni sorella, nel perdono e nell’unità; la vicinanza ai fratelli nel mondo come presenza e sostegno.
La tradizione locale tramanda che nel 1422 la beata Angelina da Montegiove invia a Città di Castello quattro delle sue suore, fra cui suor Margherita e suor Cassandra attorno alle quali si raduna una comunità di donne viventi insieme secondo la regola del Terz’Ordine francescano.
Il monastero fu dedicato a Santa Cecilia ed il primo insediamento si trovava in fondo a via della Fraternita e la chiesa dalla parte opposta della piccola piazza chiusa dal muro fatto innalzare per custodire la clausura.
Nel 1427 papa Martino V riconosce questo gruppo come monastero, con a capo una ministra eletta da tutte le monache e con un cappellano stabile, scelto a loro discrezione tra i frati Minori o di altro Ordine.
Ci vogliono tuttavia due anni perché il monastero vero e proprio si strutturi, nel 1429.
Fino al 1461 i monasteri della congregazione della beata Angelina hanno un’unica superiora generale, sul modello di quanto già avveniva nella congregazione benedettina della beata Santuccia, ma in quell’anno papa Sisto IV stabilisce che ogni monastero abbia la propria badessa.
Nei primi decenni le monache, pur appartenendo alla tradizione francescana, si relazionano anche con altri Ordini, ad esempio scegliendo il loro confessore tra i frati del vicino convento di Sant’Agostino (attuali Suore Salesiane), ma nel 1490 papa Innocenzo VIII pone il monastero sotto l’obbedienza dei frati Minori.
La vita del monastero è caratterizzata dalla povertà: in un testamento del 1438, ad esempio, le suore sono chiamate “povere di Santa Cecilia“; nel 1443 il comune di Città di Castello esenta da ogni dazio e gabella “le bizzoche (bizochas) continenti del Terz’Ordine di san Francesco, che di recente hanno fondato un luogo pio come un monastero, costruendovi una chiesa intitolata a santa Cecilia“.
Il comune favorisce la vita delle monache anche in altri modi: nel 1499 le autorizza a fabbricare un ponte ad arco sopra la strada del comune per poter accedere più facilmente e comodamente alle loro case nelle vicinanze, edificando una residenza per le loro esigenze; nel 1528 sempre il comune autorizza le suore a rettificare un muro per chiudervi un pozzo.
La povertà è una caratteristica abbastanza frequente nei monasteri del tempo.
Il numero di monache, infatti, spesso è superiore a quello che le risorse del monastero permettono di mantenere in maniera dignitosa.
A Santa Cecilia sembra che le suore siano una cinquantina, per cui, nel 1533, il provinciale della Provincia Serafica di san Francesco impone che il loro numero non superi le 37 unità.
Inoltre, la povertà impedisce anche di pagare le collette dovute alla Sede Apostolica, per cui nel 1536 le monache subiscono l’interdetto; grazie all’intervento del cardinale Guido Ascanio Sforza il provvedimento viene revocato e papa Paolo III ordina che vengano esentate dalle collette al pari degli altri monasteri degli Ordini mendicanti.
Nel 1571 un nuovo elemento mette a rischio la sopravvivenza delle monache: il visitatore apostolico, mons. Paolo della Rovere, impone la clausura totale prevista dal Concilio di Trento, per cui le suore non posso più uscire a questuare.
Le aiuta il comune che, nello stesso anno, stabilisce che settimanalmente due gentiluomini vadano a questuare elemosine da destinare al monastero.
Lo stesso comune, negli anni seguenti (1573, 1574, 1575) assegna alle suore grano e uva; viene donato anche sale, tra 300 e 700 libbre.
Nel 1638 la storia del monastero di Santa Cecilia si interseca con quella del vicino monastero del Paradiso, fondato attorno all’anno 1435 da una donna di nome Giovanna e strutturato da una consorella di nome Paola, tanto che le suore, anch’esse appartenenti al Terz’Ordine francescano, furono popolarmente chiamate “bizoche della Paola“.
Qui è doveroso aprire una parentesi per capire da dove derivi il nome “Paradiso“; ce lo dice il Canonico Angelo Ascani, nella sua “Toponomastica Castellana” (Città di Castello 1974) alla nota dedicata alla “Via del Paradiso“, dove annota che “il convento di donna Paola era detto anche “del Paradiso”, probabilmente per la vicinanza con l’abitazione di un Ingolo, ricco proprietario, originario del “Paradiso”, in quel di Sansepolcro” e grande benefattore.
Nel marzo 1266 tale Ingolo dal Paradiso (è il vocabolo “Paradiso” esistente presso Sansepolcro) fece la “donazione tra vivi” ad un’istituzione caritativa a favore dei poveri, detta “La Fratèrnita“, istituita dai francescani Fra Guido del Sacco e Fra Guiduccio dal Borgo Sansepolcro, di alcune sue case, d’un giardino e di altri beni situati presso la Scatorbia e i Frati Eremitani di S. Agostino “a redenzione dell’anima sua, dei suoi parenti e di donna Amica sua moglie defunta, per il mantenimento e l’abitazione di questi poveri“.
Nel 1457 il numero delle monache è aumentato e il vescovo ottiene per loro alcune case di proprietà della Fraternita della Trinità, adiacenti al monastero.
Vista la contiguità fra i due monasteri, entrambi appartenenti al Terz’Ordine francescano, si pensa alla loro unione nel 1475 e nel 1528 (in questo caso si ipotizza di coinvolgere anche il monastero di Santa Maria di Trastevere delle Clarisse).
Solo nel 1653, il 6 gennaio, i due monasteri vengono unificati; in tal modo è possibile creare un monastero molto spazioso, che si sviluppa sull’intero isolato e con un giardino che ingloba l’antica piazza attigua alla chiesa di Santa Cecilia.
Nel corso del XVII secolo si ricordano alcuni fatti significativi: nel 1684 la cura spirituale è sottratta ai frati Minori Osservanti e affidata al clero secolare e nel 1697 sono accolti i resti mortali di san Pio martire, qui traslato dalle catacombe di Roma.
Nella prima metà del XVIII secolo la chiesa viene ristrutturata e riconsacrata il 26 giugno 1746 dal vescovo di Cortona, Luigi Gherardi.
La tradizione orale tramandata dalle monache vuole che in questo secolo sia stato ospite del monastero un pellegrino francese, san Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783).
Una terza unione si verifica nel 1815, quando al monastero di Santa Cecilia in Paradiso viene unito quello di San Giuseppe, fondato nel 1552 (470 anni fa) da donna Elisabetta Fuccioli in una casa dietro la chiesa di San Francesco, lungo l’attuale Via Albizzini; la chiesa di San Giuseppe era stata consacrata il 30 novembre 1555.
Siamo agli inizi della Restaurazione, seguita all’abdicazione di Napoleone nell’aprile 1814, e molti monasteri soppressi nel 1810 vengono riaperti.
Una nuova soppressione rischia di porre fine alla plurisecolare storia della comunità monastica di Santa Cecilia nel 1860, questa volta ad opera di Gioacchino Pepoli, nipote di Napoleone, commissario generale dell’Umbria nella fase di annessione al nascente Regno d’Italia (proclamato il 17 marzo 1861); nel 1866 anche il Regno approva la soppressione dei monasteri, estendendo così a tutta l’Italia la legislazione approvata nel Regno di Sardegna nel 1855.
L’edificio di Santa Cecilia continua però a essere abitato, dal momento che viene individuato come luogo di concentramento delle monache espulse dagli altri monasteri.
Il monastero partecipa alla vita ecclesiale locale, risentendo anche del clima storico-religioso dei vari tempi. Così nel 1872, nell’ambito di una rinnovata devozione a san Giuseppe a seguito della sua proclamazione a patrono della Chiesa universale da parte di papa Pio IX l’8 dicembre 1870, viene realizzata la statua del santo ancora oggi conservata e venerata nella chiesa.
Nella prima metà del ‘900 le monache di Santa Cecilia aprono più volte le porte del loro monastero per accogliere, anche per lunghi periodi, persone in difficoltà: il primo caso risale al 1917, quando le “Ceciliane“, sollecitate dal vescovo beato Carlo Liviero, accolgono le suore francescane di Citerna, il cui monastero è distrutto dal terremoto del 26 aprile; vi rimangono fino al 1919.
Nel 1944 sono le Benedettine di Porta Santa Maria Maggiore a essere accolte a Santa Cecilia.
Il 19 giugno le monache si preparano a sfollare quando mons. Enrico Giovagnoli e don Beniamino Schivo chiedono loro di accogliere le 28 cieche dell’Istituto Beata Margherita e le 10 suore Serve di Maria Riparatrice che le assistono: il vescovo, Filippo Maria Cipriani, chiede al comando tedesco che le monache possano rimanere nella clausura e la richiesta viene accolta.
Per quasi due mesi il monastero di Santa Cecilia diventa luogo di vita comune per tre diverse comunità religiose e per le “ciechine“.
L’ultima evoluzione istituzionale della comunità risale al 30 agosto 1954, quando papa Pio XII accoglie la richiesta di passaggio dal Terzo al Secondo Ordine francescano, quello delle Clarisse, secondo la regola approvata da papa Urbano IV: ecco perché si parla di Clarisse Urbaniste.
Queste, in estrema e sommaria sintesi, le vicende istituzionali della comunità.
È solo un aspetto della storia, sei volte secolare, del monastero e delle monache, prima Terziare poi Clarisse, che lo hanno abitato e continuano ad abitarlo.
Ci sono altri aspetti che potremmo ricordare, ma molti altri rimangono sconosciuti; il silenzio delle fonti rispecchia il silenzio della loro preghiera delle monache, della loro vita lontana dal clamore e dalla ribalta di quelle cronache politiche o mondane che lasciano tracce, tra luci e ombre, nella grande storia.
Oggi noi siamo qui per ricordare gli inizi di questa storia, nella consapevolezza che la vita della comunità monastica di Santa Cecilia continua, testimoniando, nei modi e secondo le esigenze del nostro tempo, la presenza di Dio nella storia e proponendosi, insieme a tutta la Chiesa locale, come lievito evangelico per l’edificazione di un mondo più conforme al progetto di Dio.
Le Rose di Gerico
La nostra associazione nasce a Città di Castello il 29 maggio 2015 per l’accoglienza dei pellegrini di Santa Veronica Giuliani e di Santa Margherita di Città di Castello e per quelli che percorrono sia i cammini francescani che quelli europei.
La nostra missione prevede, inoltre, il supporto ai monasteri di clausura e agli enti religiosi locali perché crediamo nel grande patrimonio spirituale e culturale di questi luoghi.
Per la valorizzazione del territorio e delle sue bellezze artistiche, naturali e culturali organizziamo manifestazioni e giornate di incontro e approfondimento collaborando anche con altre realtà locali e nazionali sia turistiche che culturali.
Antico Chiostro
Nella parte est del monastero, da una porta che si affaccia su via della Fraternita, si accede ad un ampio cortile circoscritto da due imponenti caseggiati, questo altro non è che il primitivo convento delle Clarisse di Santa Cecilia; infatti il caseggiato che si eleva alla destra del cortile era il Convento, mentre la struttura che si trova di fronte era la primitiva chiesa ora riconoscibile dagli alti finestroni ad arco che altro non erano che le finestre della parete sinistra della chiesa.
Ora la struttura, ex chiesa del monastero di Santa Cecilia, è stata ridestinata ad altro uso, infatti sulla porta che si apre sulla via Fucci si legge la scritta Palestra Maschile.
Eremo di Santa Chiara
L’eremo di Santa Chiara viene considerato come la prima struttura del monastero del Paradiso fondato nel 1435 da una donna di nome Giovanna e strutturato da una consorella di nome Paola Ciucci e le donne che vi si consacrano vengono chiamate “Pinzochere” o “Bizzochere“, in altri posti semplicemente “Bizzoche” termine che tuttora sopravvive pressoché in tutta Italia e nella sua primitiva espressione stava ad indicare le “Monache di casa” cioè donne che si consacravano, indipendentemente dl loro ceto sociale, ma che continuavano a vivere nella società in cui si trovavano.
Il numero di queste consacrate cresce notevolmente tanto che il Vescovo Ridolfo nel 1457 chiede ed ottiene una permuta con alcune strutture della Compagnia della SS. Trinità per poter dare alle suore una struttura dove poter celebrare.
Alle monache del Paradiso viene ceduta la chiesa della SS. Trinità che ora è il parlatorio e alla Compagnia della SS. Trinità viene ceduta la chiesa di Santa Maria del Vingone che si trovava poco più avanti in fondo a via della Fraternita sulla destra.
Il monastero di Santa Cecilia e del Paradiso erano estremamente vicini quindi furono fatti diversi tentativi di unificazione, ma tutti senza successo fino a quando il 6 gennaio del 1653 quando padre Leone Carobi riesce nell’intento grazie anche al fatto che le consorelle del Paradiso erano rimaste veramente poche.
A quest’evento partecipa tutta la comunità cittadina tanto che tutti si adoperarono ad innalzare le mura per chiudere il vicolo che divideva i due monasteri (che venne inglobato nella nuova struttura come ancora oggi lo troviamo) e per poter garantire la clausura delle suore come era stato imposto nel 1571 dal Vicario Apostolico ad entrambe i monasteri.
Quindi dopo l’unificazione si comincia a parlare del Monastero di Santa Cecilia in Paradiso per sugellare questa unificazione.
Nel 1698 la chiesa della SS. Trinità diventa il parlatorio ufficiale del monastero e le monache di Santa Cecilia in Paradiso vengono definite Consorelle della Compagnia della SS. Trinità e questo legame fu ritrovato poi nel pavimento della chiesa quando durante i lavori furono trovate le tombe delle consorelle coperte dalla tunica rossa dei confratelli (vedi articolo della chiesa di San Giuseppe).
Questa cappella conserva le spoglie di San Pio Martire che il giorno 16 agosto del 1697 furono traslate dalla catacombe di Roma a Città di Castello, dapprima nella chiesa di Santa Barbara e poi traslate in questo monastero.
Chiesa di San Giuseppe
La chiesa del Monastero di Santa Cecilia in Paradiso fu consacrata il 26 Giugno 1746 dal Vescovo di Cortona Mons. Luigi Gherardi e fu dedicata a Santa Cecilia e vi fu sitemata la statua della Santa Titolare; successivamente dopo l’accorpamento del monastero di Santa Cecilia con quello di San Giuseppe nel 1815 la chiesa cambiò la dedicazione passando a San Giuseppe.
Nel 1992, dopo i lavori di restauro della chiesa, il Vescovo di Città di Castello Mons. Pellegrino Tomaso Ronchi ha dedicato l’altare a onore e gloria della SS. Trinità ponendovi due reliquie: capelli di S. Massimiliano Kolbe e un frammento d’ossa di S. Antonio da Padova.
INTERNO
L’interno si presenta a navata unica con volta a botte e tre altari che si elevano fino al soffitto con colonne poggianti su plinti, il maggiore e due laterali.
Nella parete destra si incontra il ballatoio con l’organo, uno strumento settecentesco, autore del quale è Francesco Polinori da Pesaro.
Accanto troviamo l’altare contenente la statua ottocentesca in cartapesta di S. Cecilia.
A lato dell’altare maggiore, nella lunetta sopra la grata che divide il coro delle monache dalla chiesa, vi è una tavola in terracotta, un bassorilievo di scuola robbiana raffigurante l’Adorazione dei Magi risalente alla fine del 1400.
Fu posizionata sopra la grata del coro prelevandola da un’altra sala dove era precedentemente custodita ed era chiamata la sala dei magi proprio per la presenza di questa raffigurazione.
In occasione della trasposizione della pala fu commissionato l’ornamento in stucco che fa da cornice in tutta la parete ed è del Conte Carlo della Porta.
L’altare maggiore è ligneo finemente decorato di fattura seicentesca con colonne ornate da rami di acanto da formare un tempietto sul cui timpano è inserita una tela stretta e rettangolare seicentesca, scurita dal tempo, attribuita a Giovan Battista Pacetti detto lo Sguazzino (Città di Castello 1593-1662) che rappresenta S. Girolamo in mezzo a S. Sebastiano e a San Giacomo Maggiore apostolo.
In una nicchia della macchina d’altare vi è la statua in cartapesta di S. Giuseppe con il Bambino del 1815, dono della popolazione della città per onorare l’arrivo delle monache di S. Giuseppe al Monastero di S. Cecilia in Paradiso, essendo queste state associate a questo monastero dal Vescovo di Città di Castello, Mons. Mondelli.
Scendendo nella parete sinistra troviamo un altro altare dove al disopra si trova una tela con l’Annunciazione probabilmente opera anche questa di Giovan Battista Pacetti detto lo Sguazzino.
Quest’opera fu commissionata dalla Comunità di Città di Castello, infatti in basso a sinistra campeggia lo stemma della città con i colori bianchi e rossi e la croce.
Sopra la balaustra del coretto di controfacciata si trova una bella grata intarsiata, che consentiva alle Monache di assistere, non viste, alle celebrazioni dei riti.
La grata è formata da una serie di intagli a traforo che raffigurano gli strumenti della passione disposti entro pannellature rettangolari.
Il coro è molto ampio e ben più capiente di quello posto in basso dietro la grata della parete destra accanto all’altare e consentiva alle suore di partecipare meglio alla funzione religiosa.
Il bellissimo pavimento originale è del 1400 con mattoncini in terracotta dipinti a mano.
Durante i restauri degli anni 1991-1992 il pavimento fu rimosso attraverso un lavoro certosino che necessitò di numerare e catalogare ogni mattone per poter poi ricostruire l’intero pavimento nella sua originalità.
Durante questi lavori di restauro sotto la pavimentazione furono rinvenuti due ossari ben separati: uno per le monache del monastero ed uno per i confratelli della SS. Trinità.
Nel 1698, infatti, “le Monache di S. Cecilia in Paradiso furono dichiarate sorelle della compagnia della SS. Trinità, onde i fratelli della compagnia associano i loro cadaveri alla sepoltura“.
Il Muzi racconta che nel 1698 i fratelli della Confraternita si occupassero della sepoltura delle sorelle trasportando il corpo dal parlatorio alla chiesa del monastero attraverso una processione; i Confratelli erano vestiti con la tunica rossa proprio questa veste veniva deposta insieme alla bara nella sepoltura a sigillare questo legame religioso che c’era far le due comunità.
Parlatorio ex chiesa della Santissima Trinità
Il parlatorio del monastero di Santa Cecilia, già chiesa del monastero del Paradiso, ottenuta in permuta dalla confraternita della Santissima Trinità, conserva interessanti affreschi neogotici in gran parte realizzati da artisti senesi che lavorarono nei primissimi anni del Quattrocento anche in altri luoghi di culto del nostro contado come l’Abbazia di Uselle, la chiesa di Santa Maria a Passerina e l’oratorio di San Crescentino a Morra.
Gli affreschi sono per lo più ex voto quindi testimonianze di offerte per una grazia ricevuta, oppure di richieste per ottenere una grazia.
Quello che si vede oggi non che una porzione molto ridotta della navata della ex chiesa della Santissima Trinità poiché la struttura è stata modificata sia nell’aspetto che nella sua funzione nel 1698 e divenne il parlatorio delle monache.
I lavori modificarono la navata che era molto più alta con soffitto a capriate, fu realizzata la parete divisoria che introduce all’attuale parlatorio, quindi la chiesa si sviluppava ben oltre l’ambiente che oggi possiamo vedere.
Molti di questi affreschi sono stati distrutti per l’adeguamento della nuova struttura a botte della chiesa, infatti essendo il soffitto più basso della presedente struttura, gli agganci dei pilastri della volta sono stati posizionati nei muri laterali sacrificando i dipinti.
Nota sicuramente interessante di questo apparato pittorico del Parlatorio, è la presenza diffusa tra gli affreschi della figura di San Giovanni Battista protettore e patrono, tra gli altri, dei conciatori, cardatori e commercianti della lana.
In questa zona della città già nel XIV sorgevano numerose botteghe e laboratori della lana; tra le varie corporazioni, quella dei Lanari era la più florida.
Botteghe per la lavorazione della lana e delle stoffe attiravano mercanti anche da Firenze e questo contribuisce a favorire i rapporti tra la città e i Medici.
E’ possibile vedere lo stemma della corporazione dei Lanari in pietra (in cui è raffigurato l’Agnus Dei) sulle facciate di diversi palazzi della città.
In controfacciata a sinistra si nota San Giovanni Battista, un santo questo che ricorre spesso all’interno del Parlatorio, qui è rappresentato nella sua iconografia più ricorrente: vestito di pelli di animali, la chioma scomposta e con una sottile asta di verghe con una croce all’estremità e cartiglio che riporta la scritta “ECCE AGNUS DEI“.
Nella parete sinistra, il primo dipinto che si incontra è Cristo benedicente dentro la mandorla contornato e sostenuto da angeli e accompagnato dai quattro evangelisti.
Una importante lacuna nella parte bassa del dipinto ci impedisce di vedere quella che doveva essere il fulcro e la parte più importante dell’affresco.
Ne rimane solamente una porzione che mostra una schiera di angeli con due alberi ai lati.
La mandorla ha forma di pesce, ICHTHYS in greco, acronimo di Cristo; il mandorlo è anche il primo albero a sbocciare in primavera per cui diviene simbolo della nascita e della resurrezione di Cristo.
La sua forma è data dall’incontro di due cerchi che simboleggiano l’umano e il divino, il centro è ciò che indica la comunicazione e l’unione dei due, quindi Gesù Cristo il divino fatto uomo.
Interessante è anche la cornice, anche essa lacunosa, ma che ci permette di vedere nei due riquadri della parte alta una Annunciazione: nel primo vediamo l’Arcangelo Gabriele nell’atto di annunciare e nel riquadro all’angolo troviamo la Vergine annunciata con le mani giunte.
Segue una Crocifissione con Cristo in croce dove alla sua destra si nota la Vergine addolorata e alla sinistra San Giovanni evangelista.
Nella grande lacuna che si trova al centro era con molta probabilità rappresentata Maria Maddalena sotto la Croce.
Ai lati sotto le braccia del Cristo e sotto il costato, alcuni angeli raccolgono il Suo Santo sangue.
Subito dopo un affresco narra il momento in cui San Giovanni Battista ancora molto giovane (raffigurato bambino) lascia tutto (alle spalle è rappresentata una città) per ritirarsi nel deserto e condurre una vita di penitenza e preghiera (l’angelo indica il deserto e la vita da eremita).
Accanto un trittico di santi dove il primo è un’altra volta San Giovanni Battista, questa volta però rappresentato adulto con una veste rossa, la chioma scomposta e con una sottile asta di verghe con una croce e cartiglio che riporta la scritta “ECCE AGNUS DEI“.
Alla sua sinistra una figura maschile ben vestita di giovane aspetto con la spada e la palma del martirio che si può ipotizzare senza nessuna certezza che possa trattarsi di San Giacomo Maggiore primo apostolo martire che ha subito il martirio e la morte tramite la spada.
Il terzo santo non è identificabile in quanto una metà dello stesso è stata cancellata dal muro, però a giudicare dalla porzione di affresco rimasta si può ipotizzare che possa essere ancora San Giovanni Battista.
Stessa sorte è toccata al santo nel registro superiore anch’esso dimezzato.
Una serie di affreschi copre anche la parete di destra dove, a scendere verso la controfacciata, troviamo Sant’Antonio Abate, uno tra i principali padri della Chiesa d’oriente come in questo caso rappresentato anziano con una lunga barba, il bastone dell’eremita a forma tau, il libro della regola.
Spesso a tali attributi iconografici si aggiungono anche la campanella e il maialino; qui è rappresentato anche un angelo che potrebbe alludere all’episodio della sua vita in cui, San Antonio, in preda a tentazioni è raggiunto da un angelo che lo aiuta e sostiene nella difficoltà e gli indica quella che sarà la sua Regola: “ora et labora“.
Segue Santa Caterina d’Alessandria secondo la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine (1260) Santa Caterina era una donna nobile molto bella che rifiutò di sposare l’imperatore Massenzio (o Massimino) perché cristiana e votata a Cristo.
L’imperatore pertanto decise di ucciderla con una ruota dentata che però, per intervento divino si ruppe, Caterina fu allora decapitata.
Qui la riconosciamo per la ruota che si trova al suo fianco e l’aspetto di giovane donna con abito elegante.
Accanto alla Santa la decollazione di San Giovanni Battista; l’affresco racconta l’episodio in cui San Giovanni viene decollato per volere di Erode Antipa perché lo aveva pubblicamente criticato per la sua condotta (viveva con Erodiade moglie di suo fratello).
L’affresco purtroppo giunge a noi lacunoso, ma si nota il carnefice con la spada che taglia la testa del santo che possiamo intuire in basso riversa a terra e riconoscibile dall’aureola.
La scena successiva, molto deteriorata, rappresenta il momento in cui Salomè, figlia di Erodiade, qui rappresentata come una giovane fanciulla con capelli biondi e coroncina di fiori in testa, presenta ad Erode la testa di San Giovanni su di un vassoio d’argento.
Nel registro superiore nella scena centrale, su di una mandorla sostenuta da angeli e dai quattro evangelisti è rappresentata una figura femminile con abiti domenicani.
Potrebbe corrispondere a questa iconografia Santa Margherita di Città di Castello (già Beata Margherita della Metola), suora domenicana già molto conosciuta in quel tempo.
Si narra che fosse una presenza pacificatrice nelle situazioni di conflitto; può confermare questa ipotesi la presenza dei due uomini rappresentati con abiti del tempo che si abbracciano in segno di pace.
Oltre al fodero senza arma, sotto di loro si possono notare alcune armi deposte a terra, riconosciamo una corazza, un pugnale, un ascia e una spada.
All’interno della cornice e anche in basso sono rappresentate piccole figure oranti di incappucciati; con molta probabilità si può supporre che siano i confratelli della chiesa della Santissima Trinità.
Ai lati di questa scena troviamo a sinistra San Giovanni Battista rappresentato secondo la consueta iconografia, a destra San Giovanni Evangelista raffigurato come uomo di giovane aspetto, la penna in una mano e il suo Vangelo nell’altra.
seguono due figure di Santi poco leggibili per il deterioramento: il primo potrebbe essere San Giovanni Battista e la seconda una Santa non identificata.
In controfacciata a destra della porta una figura quasi intera di San Leonardo con i ceppi del martirio in mano.
Questa descrizione riguarda in sintesi l’ingresso del parlatorio, delimitato da un muro che immette all’interno dello stesso e altro non è che il resto della navata prospiciente il presbiterio.
Quest’area è completamente priva di affreschi che saranno stati cancellati durante i lavori di sistemazione, infatti da come sono affrescate le pareti all’ingresso si deduce che questi continuavano per tutto lo spazio successivo, ma che ora non esistono più.
Si notano solo due tele: in una la Vergine sopra una mezzaluna tra San Bernardino da Siena e Sant’Isidoro e nell’altra il Redentore tra le nubi e sotto quattro figure di Santi e Sante Francescane.
Da questo ambiente si accede alla sala dove sono custodite le antiche pergamene contenenti gli “Atti Tifernati del III ordine di San Francesco” (1253-1599).
Sala dei Magi
In questa sala era conservata la lunetta robbiana dell’Adorazione dei Magi ora conservata nella chiesa di San Giuseppe.
Le lunette sono decorate da un ciclo di affreschi narranti la leggenda del ritrovamento della Vera Croce di Sant’Elena; gli affreschi, sebbene non di pregiata fattura, sono databili intorno alla fine del ‘300 inizi del ‘400 di autore ignoto.
Questa sala in occasione del 600 anno della fondazione del monastero è stata adibita ad esposizione temporanea delle antiche pergamene contenenti gli “Atti Tifernati del III ordine di San Francesco” (1253-1599).
Sala delle Reliquie e Museo
In occasione dei 600 anni di vita del monastero, all’interno dello stesso è stata allestita una sala dove sono conservati oggetti, lavori, reliquie e strumenti di uso quotidiano che per l’occasione sono stati riordinati in apposite bacheche.
La Madre Badessa non lo chiama museo, ma “Sala della Memoria” dove non sono presenti solo oggetti antichi, ma è un luogo dove si notano scorci della storia del lavoro delle monache nei secoli; un luogo che ripropone il quotidiano della vita monastica.
Cappella della Madonna della Divina Provvidenza
La cappellina interna del monastero conserva l’immagine della Madonna della Divina Provvidenza così denominata da Mons. Paolo Antonio Micallef, vescovo di Città di Castello nel 1868, grazie ad un miracolo avvenuto a beneficio di una monaca in procinto di morire per inappetenza; si narra che la Vergine Maria porse alla monaca delle cerase ed ella ne mangiò e ne fu guarita.
L’affresco quattrocentesco, di autore ignoto, rappresenta Maria seduta sul trono mentre il trono di Gesù sono le ginocchia della Madre che lo accolgono.
Lo mostra al mondo e lo dona; l’abside che si intravede dietro è concavo sembra quasi abbracciare chi si avvicina a guardare, è l’abbraccio di Dio Padre per l’umanità.
L’affresco che ora vediamo a mezzo busto era di dimensioni naturali, si può notare da una piccola scoperta fatta di recente.
La scelta di coprire la parte inferiore dell’affresco fu del ventisettenne pittore perugino Alessandro Bruscetti nel 1937, che ne fece il restauro, dietro commissione di mons. Cipriani, vescovo di Città di Castello che ne finanziò anche la manodopera, visto lo stato di deterioramento dell’immagine miracolosa.
I ritocchi sono stati tanti ma è certo che gli sguardi e i lineamenti sono autentici.
I colori delle vesti probabilmente erano rosso per le vesti e blu per il manto, segni di entrambe le nature cioè quella umana e quella divina.
Le ciliegie che Maria ha tra le dita, simbolo del miracolo avvenuto, furono ridipinte successivamente, e sono rivolte verso l’alto poiché il pittore non aveva spazio in basso per raffigurare le ciliegie pendenti, essendoci la mano di Maria.
Il Bambino stringe tra le mani un cardellino simbolo della passione.
Accanto all’immagine della Vergine, oltre che numerosi ex voto per grazia ricevuta, sono appesi dei quadretti ricordano che il Vescovo Micaleff ed il successivo concessero 40 giorni di indulgenza a chi recitava tre Ave Maria davanti all’immagine sacra.
Sempre in questa cappella un ostensorio conserva le reliquie di Santa Cecilia.
Nella parete destra una tela raffigura la Vergine ed il Bambino che dall’alto delle nubi Santifica San Giuseppe apponendo sul suo capo l’aureola.
Nota di ringraziamento
Ringrazio sentitamente l’Associazione Le Rose di Gerico per la cortesia, la disponibilità e la professionalità manifestata nei miei confronti e soprattutto per il tempo che mi hanno dedicato.
Ringrazio altresì Don Andrea Czortek per avermi concesso la pubblicazione di un suo testo.
Ringrazio le Suore, che non conosco, ma di cui ho potuto apprezzare il gran lavoro che hanno svolto per l’allestimento delle sale e che ha portato al gran successo dei festeggiamenti dei loro 600 anni di convivenza.
Fonti documentative
La storia del monastero è di don Andrea Czortek (Conferenza “Monastero Santa Cecilia: 600 anni di vita francescana, Città di Castello, 11 novembre 2022“) e liberamente adattata da Fugnoli Raimondo.
https://www.lerosedigerico.it/chi-siamo.html
Per la chiesa – Pannello illustrativo (600 anni del Monastero Santa Cecilia, Città di Castello , 26-27 novembre 2022)
Per il Parlatorio – Testo di Lucia Gustinelli liberamente adattato da Fugnoli Raimondo
Per la Cappella della Madonna della Divina Provvidenza testo di Sr. M. Carmela Salvato Abbadessa del Monastero e liberamente adattato da Fugnoli Raimondo.