L’Eremo di Santa Maria del Sasso – Montemalbe (PG)
Cenni storici
L’Eremo di Santa Maria del Sasso sorge sul versante del colle di Montemalbe che guarda verso Perugia, a poca distanza dalla cima e dalla cappella della SS. Trinità, con una veduta straordinaria sulla città che in linea d’aria dista meno di 5 km.
Il piccolo complesso edilizio si sviluppa a strapiombo su un dirupo di roccia calcarea, di qui, evidentemente, la denominazione “Sasso” come risulta tuttora anche dai toponimi.
La presenza di religiosi in questa parte di territorio “fratrum de Monte Balbe” era notevole nella densa selva, tra eremi, cappelle e oratori, se ne ha notizia da un privilegio di Innocenzo II del 24 maggio 1139 che lo cita (senz’altro) senza nominarlo, infatti da esso si apprende che nel contado perugino, “in Monte Albo“, il monastero di Fonte Avellana possedeva l’eremo di S. Salvatore, con chiese, ville e altre dipendenze.
Nell’epoca comunale Montemalbe fu una delle più ricche e organizzate comunanze di Perugia e fin dall’anno 1200 il comune assicurava agli abitanti delle adiacenze il diritto di legnatico e di estrazione della pietra calcarea per costruzione e per calcinai.
Nel 1277 già appaiono nei documenti i “fratres de Monte Balbe” sovvenzionati dal comune ma più intensi furono gli insediamenti nel secolo successivo, favoriti certamente dalle autorità cittadine e dalla ricca categoria degli appaltatori anche per interessi economici, come la salvaguardia della comunanza.
E’ impossibile trovare nelle fonti del sec. XIV una denominazione precisa che qualifichi dal punto di vista giuridico e religioso la natura dei nuclei d’insediamento in questo colle perugino se non a partire dal 1318 quando il Comune di Perugia in netta contraddizione alla bolla di Giovanni XXII “Sancta Romana” del 30 dicembre 1317 in cui condannando gli Spirituali e le varie sette eretiche dei loro seguaci, intendesse estirparne dalla Chiesa la mala pianta, un anno dopo concede ai fraticelli “qui morantur ad Sassum in Monte Malbe et iuxta ipsum Sassum“, una mina di terreno seminativo della comunanza del Monte “reservato semper comuni Perusii dominio et proprietate“.
Ecco quindi che a partire dal 1318 si ha un quadro più preciso degli insediamenti religiosi, infatti in Montemalbe troviamo il Sasso, o S. Maria del Sasso, l’eremo di S. Salvatore, un “locus” della S. Trinità, una cappella di S. Caterina, la cui fondazione ad opera degli eremiti (“fratres pauperes seu heremite“) è ricordata fin dal 1382.
In tutti i documenti gli abitanti di questi luoghi sono chiamati molto confusamente frati, fraticelli, eremiti.
Quando verso il 1360 il comune di Perugia rinnovò il catasto, a Montemalbe, nel contado di porta S. Susanna figurano i “fratrés de Monte Malbe” ed il “monasterium héremi Sancti Salvatoris de Monte Malbe” nel contado di porta S. Angelo.
Nel 1389 il priore di Santa Maria, fra Liberato da Borgo San Sepolcro, allibrando i beni del suo monastero nel catasto cittadino, ci fa conoscere quanto si fossero allargati i possedimenti di S. Maria del Sasso nel contado di Perugia e più significativamente nella città, come in porta S. Pietro, in porta S. Susanna e in porta S. Angelo.
Per quanto riguarda l’identificazione attuale della dislocazione territoriale degli eremi sopra descritti possiamo ritenere che l’eremo avellanita di S. Salvatore è da identificarsi nel toponimo “Romitorio“; il “Sasso” o “S. Maria del Sasso” è ora una cappella dissacrata presso un gruppo di case coloniche; la cappella di S. Caterina nel 1535 fu concessa ai Cappuccini che tuttora vi dimorano; la Trinità è una cappella dipendente dalla parrocchia di S. Maria della Fontana.
Mentre l’Inquisizione tentava di estirpare questi movimenti che chiamava addirittura “filii maledictionis“, il Comune di Perugia si pose sempre in posizione avversa alle decisioni papali liberando addirittura alcuni prigionieri dalle carceri dell’Inquisizione e anche il Vescovo di Perugia cominciò ad attenuare il proprio atteggiamento tanto che nel 1359 il monastero di Santa Maria del Sasso ottenne l’approvazione da questo vescovo e da quello di città di Castello ed il Priore fu Francesco di Nicolò da Perugia conosciuto anche con lo pseudonimo di “Papa fraticellorum” ed applicò la regola di Sant’Agostino; conosciamo anche il loro abito, bianco con scapolare, cappuccio piccolo e un mantello grigio, alla maniera dei fraticelli, “cum naticchia sicut portant fratres de tertio Ordine beati Francisci“.
In quel periodo si contano una decina di frati e il monastero superò la fase inquisitoria che ebbe come unico esito le dimissioni del Priore della congregazione, il quale, tuttavia, continuò con ogni probabilità ad essere il regista occulto della vita della comunità.
Purtroppo però le successive vicende politiche perugine e non solo provocarono scontri che produssero diversi fuoriusciti che tra le altre razzie compiute il 13 marzo 1390 fecero un’incursione su Montemalbe e predarono 1500 capi di bestiame e fecero 25 prigionieri.
I frati cominciarono a temere per la loro incolumità in conseguenza della loro collocazione politica e le loro simpatie per il governo popolare.
I nobili di Perugia commisero in quegli anni diversi delitti e fra questi ci fu l’assassinio di fra Liberato e di alcuni frati nel 1395 e i frati di Montemalbe furono ridotti in uno stato di estrema povertà tanto che i Priori delle arti l’anno dopo avevano erogato un’elemosina di 10 fiorini per il Romitorio di S. Maria che era stato depredato di tutto.
Dopo questo eccidio l’eremo fu concesso ai frati dell’Osservanza di Monteripido ed i fraticelli superstiti si dispersero.
Nell’anno 1411 si chiude la storia dell’eremo infatti il luogo venne annesso dal comune alla nuova chiesa di S. Mara del Condotto in porta S. Angelo e l’ultimo fraticello, fra Lorenzo di Giovanni da Perugia, subiva a Lucca un processo per sospetto di eresia.
Non si conoscono le fasi successive, ma di fatto la storia ce la possiamo immaginare in quanto l’eremo è passato in mano privata e ridotto a casa colonica con le dovute modifiche strutturali che ne hanno mortificato la sua naturale dedicazione.
Aspetto dell’ambiente monastico
L’ambiente si presenta oggi come una casa colonica in abbandono, in buona parte avvolta dalle sterpaglie e in condizioni di grave fatiscenza e dove, nel corso degli anni, è stato ridotto a discarica di materiali di svariata natura.
Il nucleo originario dell’eremitaggio è tutt’ora distinguibile nel corpo settentrionale dell’edificio tra le cubature aggiunte successivamente: scendendo una ripida scala ricavata nella roccia si rinviene un vano nel quale s’apre la spelonca che con ogni probabilità costituiva il primitivo ricovero dei frati anacoreti.
Di fatto probabilmente i primi monaci che vi si sono insediati hanno sfruttato quella cavità che non è naturale, ma frutto di uno scavo sicuramente sepolcrale del popolo etrusco, ma non solo, girovagando nel bosco è facile vedere terrazzamenti e pietre modellate di chiara origine romana, il che evidenzia il fatto che l’antropizzazione del luogo arriva da contesti storici molto più antichi.
Davanti l’edificio colonico si trova una costruzione torreggiante anch’essa innalzata sulla verticale del precipizio, qui trova spazio quella che dovette essere la cappella della comunità, ridotta a magazzino di svariati materiali e soppalcata malamente con una struttura nella parte superiore; si tratta di un ambiente rettangolare di modeste dimensioni (3.70 x 6.70 m.) dall’aspetto assolutamente dimesso spartito longitudinalmente da un arco trasversale a tutto sesto sul quale appoggiava la travatura lignea del solaio dell’ambiente superiore.
Il piano di calpestio, costituito da terra battuta e terriccio, si presenta innalzato rispetto alla quota originaria, come si evince dalla presenza di un’apertura tamponata visibile all’esterno sotto tale livello.
Sulla metà sinistra della parete rivolta ad est, la più antica rimasta, divisa grossomodo a metà dal piedritto dell’arco, emergono in stato di lacerto le tracce di alcune immagini dipinte.
Nonostante le difficoltà di lettura ingenerate dalla condizione fortemente compromessa dei reperti è possibile intendere che la decorazione di un tempo presentasse un impianto unitario e fosse più estesa rispetto all’area dei brani oggi visibili.
La parete, larga 345 cm, era spartita in due livelli sovrapposti, nella fascia superiore la decorazione è quasi totalmente perduta, anche a causa dell’apertura di una finestra quadrata al centro della parete ad un’altezza di 160 cm dall’attuale livello di calpestio.
Sopravvivono tuttavia, tra questa e il lato destro, alcuni avanzi di affresco: brani di panneggio sotto i quali spuntano i piedi nudi di tre personaggi in origine a figura intera e contigui l’uno all’altro; evidentemente una teoria di santi, interpretabile come un’Ascensione, o meglio un’Assunzione della Vergine, dal momento che proprio a Maria la cappella era intitolata.
La zona inferiore, alta 96 cm, in origine era completamente circondata da una cornice lineare a fasce colorate.
Nello spazio così circoscritto, campito con azzurrite, sono distinguibili tre zone: procedendo da destra verso sinistra, nella prima (120 cm ca.), si incontrano un San Francesco e un Santo vescovo; a seguire, una porzione di muro di circa 105 cm che nello stato attuale appare priva di immagini e, nella rimanente superficie (120 cm ca.), l’impronta di una figura della quale si discernono a malapena il rilievo dell’aureola e certi dettagli che fanno pensare ad emblemi vescovili.
Alla destra di quest’ultima, verosimilmente, doveva esistere un’ulteriore immagine che completava simmetricamente la serie, della quale, tuttavia, non si possono più leggere le tracce.
Più in basso, fuori da questo limite, s’intravede sull’estrema destra la figura di un laico orante, forse il finanziatore degli affreschi, attinente probabilmente al complesso ora descritto: metà della testa è andata perduta con la caduta dell’intonaco, mentre la parte inferiore, ricoperta dallo scialbo, è interrata sotto il livello del suolo.
Tale presenza può essere letta come una pregnante testimonianza di quanto fosse vivo il legame esistente tra i fraticelli eremiti e gli ambienti laicali.
Da un’analisi più circostanziata delle immagini per quanto deteriorate sono ancora sufficientemente leggibili sia nell’impianto generale che, in alcuni brani, nella descrizione dei tratti fisiognomici, e sono da attribuire senza incertezze al Maestro di Paciano.
Fonti documentative
Francesco Piagnani – I lacerti di affresco dell’Eremo Perugino di Santa Maria del Sasso e una ricostruzione per il Maestro di Paciano – Accademia edu
Ugolino Nicolini – I fraticelli di Montemalbe a Perugia nel secolo XIV – Estratto da Picenum Seraphicum XI 1974 pp. 262-281
Nota di ringraziamento
Ringrazio sentitamente Glauco Mencaroni che ha dedicato il suo tempo ad accompagnarmi all’eremo per me introvabile e Marcello Labate che mi ha fornito il materiale informativo per poter realizzare l’articolo.
Li ringrazio entrambi soprattutto per la pazienza dimostrata nei miei confronti.