Eremo di Monte Giove – Fano (PU)
Cenni Storici
La storia religiosa pagana è adombrata dal nome stesso, come a Fano si bruciavano incensi alla dea Fortuna, così a Monte Giove, i nostri antichi vollero edificato un tempio al padre degli dei.
Forse anche presso i pagani si sentiva che i monti, sollevando dalla terra, avvicinano alla divinità. Non sappiamo il pensiero antico riguardo a questa opinione, però è tradizione confermata dal nome che lassù vi sia stato qualche cosa di sacro.
Ma, se la storia pagana del Monte si perde nelle ombre impenetrabili dell’antichità e della tradizione, quella cristiana è certa.
Per più secoli, esso rimase forse abbandonato, poi dagli ultimi mesi del 1520, il Canonico della Cattedrale di Fano e Protonotario, il Nobile Galeazzo Gabrielli, nipote del Card. Gabriello, si era incontrato con il B. Paolo Giustiniani nelle vicinanze di Gubbio proprio nel Monastero dei Canonici Regolari. A questa data risalgono i rapporti fra la città di Fano e gli Eremiti Camaldolesi di Montecorona; da essa comincia l’alba della storia cristiana di Monte Giove.
Se, infatti, il Giustiniani fu la mente direttiva nel ricondurre gli Eremiti Camaldolesi alla primitiva osservanza, Galeazzo Gabrielli, che poi diverrà Camaldolese anche lui, P. Pietro da Fano, fu il suo braccio destro e col consiglio col suo concorso finanziario.
E non soltanto il Canonico Gabrielli dette quanto aveva di suo e la sua libera disponibilità, ma anche i benefici ecclesiastici che possedeva, i quali con Bolla di Clemente VII, in data 17 marzo 1524, venivano uniti alla compagnia di S. Romualdo, vita natural durante del donatore medesimo e di un altro eremita a sua scelta.
I benefici ecclesiastici consistevano nel monastero di S. Salvatore di Monteacuto, in Diocesi di Perugia; nel Priorato di S. Leonardo del Volubrio in Diocesi di Fermo; nel priorato di S. Salvatore in Fano; nelle chiese parrocchiali dei SS. Pietro e Paolo di Cartoceto pure in diocesi di Fano.
La perpetua unione di questi beni alla Congregazione Camaldolese fu concessa da Clemente VII il 19 febbraio 1528, ma, non essendo state spedite le lettere apostoliche, fu confermata da Paolo III il 3 novembre 1534 con effetto retroattivo.
In seguito a tanta beneficenza, non era possibile che non si pensasse a chiamare gli Eremiti Camaldolesi a Fano, ed il luogo più bello, più ridente e più consono era Monte Giove.
Per favorire questo insediamento le Monache Benedettine di S. Arcangelo concessero una possessione con casa e Chiesa sotto il titolo di S. Elia nei confini della città di Fano e questa concessione fu approvata e confermata da Clemente VII il 28 febbraio 1528 ed i fratelli di Galeazzo, Pietro e Ludovico
in data 7 agosto 1528, donarono la Chiesa di S. Maria del Riposo, dei Piattelletti, in Fano, ed alcune case annesse che servivano loro di ospizio.
Il Capitolo generale, che si tenne nel 1608, finalmente decise di erigere l’eremo di Monte Giove per soddisfare le ripetute istanze dei Fanesi e stabilì che dovessero servire allo scopo le rendite del priorato di S. Salvatore.
Molti benefattori concorsero alla costruzione e lo stesso Comune si obbligò per dieci anni di somministrare alla famiglia religiosa una notevole quantità di grano.
La costruzione fu compiuta nel 1627 e fu subito cominciato ad abitare da una famiglia di quindici eremiti.
Si ricorda nella storia, sebbene non sia riuscito a trovarne alcuna traccia in qualche iscrizione, una visita che, nel 1657, la regina di Svevia Cristina Alessandra fece all’eremo, tornando da Roma.
La Chiesa attuale, dedicata al SS. Salvatore, fu rifatta nel 1741, in forma più elegante ed in luogo più sicuro, su disegno dell’architetto Gian Francesco Bonamici da Rimini, quasi simile alla già esistente che, dopo appena un secolo o poco più dalla sua costruzione, minacciava rovina, e fu consacrata l’8 giugno 1780 dal Conte Giacomo Beni, patrizio di Gubbio e Vescovo di Fano.
Fu capo maestro dei muratori Antonio M. Carbonari; Sebastiano Ricci fu autore della facciata; Giuseppe Ricci del pavimento e della scala del cimitero; il veneziano Antonio Corradini, scultore in Roma, il 7 di marzo del 1746, cominciò il lavoro della statua di S. Romualdo in marmo di Carrara per il prezzo di scudi 350 e vi impiegò sedici mesi; Giovanni Fabbri, scalpellino, da S. Ippolito, fece l’altare maggiore di marmo, cominciandolo nell’aprile del 1745, per scudi 420, ed i piccoli altari per scudi 512,50; Carlo Sarti da Bologna è l’autore di quattro statue di stucco per scudi 30, oltre le spese, e le fece nell’ottobre del 1748.
La cappella a sinistra di chi entra fu fatta a spese del nobile fanese Guido Nolfi, il quale volle che perennemente vi ardesse una lampada per cui stabilì una dote con istrumento redatto da Bernardino Dudoni fin dal 1° di giugno del 1629.
La S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, nel 1741, permise che fosse diminuita la famiglia religiosa fino a tanto che non fosse pronta la nuova Chiesa.
In questo tempo, tutto l’Eremo fu cinto del muro di clausura di cui ancora era privo, e fu sì bene restaurato che si sarebbe potuto dire quasi fabbricato di pianta.
Il 14 di dicembre del 1759 la stessa S. Congregazione approvò la convenzione fatta fra gli eremiti di Monte Giove ed i Frati Minori riguardante la nomina del Curato della Chiesa del SS. Salvatore, ora S. Maria Nuova.
I Padri Minori, fin dal 1519, avevano avuto l’uso di detta Chiesa parrocchiale; ma poi, per la cessione di Galeazzo Gabrielli in favore degli eremiti camaldolesi fatta nel 1524, fu riservato al Priore pro tempore dell’Eremo di Monte Giove il diritto di nominare il parroco, che per lungo tempo fu un sacerdote secolare.
Siccome, però, non andavano d’accordo il parroco ed i frati, con questa convenzione, si stabilì che, in seguito, il P. Priore scegliesse a parroco uno dei tre Frati Minori proposti dal loro Provinciale, e poi fosse presentato al Vescovo per l’approvazione.
Fu questo il periodo più bello e più prospero per gli Eremiti Camaldolesi di Montecorona, sia per il numero che per la santità dei religiosi, i quali non solo poterono vivere in pace, ma osservare in tutta la loro austerità la regola e le istituzioni camaldolesi.
Ma la burrasca antireligiosa non era lontana e, se diminuirono il numero, se limitarono gli eremi, se apparentemente decaddero dallo stato di floridezza in cui erano, non fu già per diminuzione di spirito religioso, od affievolimento nell’osservanza regolare, ma per la nequizia dei tempi, e qui cominciano vicende non troppo liete anche per l’Eremo di Monte Giove.
Gli ultimi anni del sec. XVIII rappresentano uno dei periodi della storia più fecondi di rivolgimenti e di sconvolgimenti.
In mezzo al turbinio repubblicano, anche gli Eremiti Coronesi, se non travolti, furono però terribilmente sbattuti, come alla maggior parte degli ordini possidenti, fu dato loro un Commissario, dal quale dovevano dipendere per il vitto quotidiano; furono ridotti di numero gli eremi, ed esiliati i religiosi che non appartenevano al distretto repubblicano.
Negli ultimi giorni del 1797, l’eremo dovette essere abbandonato dai suoi più propri abitatori; il 4 giugno del 1808, con tutto quanto i padri vi possedevano, fu occupato dagli Ufficiali del R. Demanio e a tutti i religiosi fu assegnata una pensione, di cento scudi per i sacerdoti e di sessanta per i conversi.
Però, essendo due Padri andati in Ancona, dove erano gli ufficiali del nuovo Governo, e trovatili ben disposti verso gli eremiti, ottennero che due eremi nelle Marche, a loro scelta, fossero conservati. Uno dei preferiti fu quello di Monte Giove; ma non vi tornarono definitivamente prima del 1815, nel qual anno il Sommario Cronologico Camaldolese dice che, fra gli altri, fu riabitato l’Eremo di Monte Giove in Diocesi di Fano, difatti la S. Congregazione della Riforma con decreto in data 20 dicembre 1814, tra gli altri, ripristinò l’Eremo di Monte Giove presso Fano.
Nel 1816, vi erano otto eremiti e la famiglia religiosa, nella esatta osservanza della regola, vi si trovava anche nel 1826, decennio in cui gli eremiti crebbero notevolmente di numero.
Ci vissero fino alla legge di soppressione del 1860, in forza della quale tutti gli ordini religiosi furono spogliati dei loro beni ed i membri dispersi.
Detta legge, nelle Marche, andò in vigore nel 1863.
Gli eremiti di Monte Giove si ritirarono nella vicina villa di S. Girolamo, vulgo del Prelato, dove stettero sette anni; finchè, dopo il 1870, coll’aiuto dei benefattori, poterono tornare a casa loro, non più però come proprietari, ma come custodi e, nel 1900, per una convenzione col Municipio di Fano, ne divennero gli affittuari.
L’Eremo aveva perduto, o quasi, il suo carattere di luogo sacro, perché i Fanesi lo facevano meta di gite e di merende e pretendevano di farla da padroni e di intrattenervisi fino alle più tarde ore della notte, sicché, nel 1902, i Superiori ne decisero la chiusura.
Nel 1925, dopo un anno di laboriose trattative, per opera principalmente del Sindaco Avv. Cav. Sergio Rossi, degli assessori Avv. Ettore Fabri-Nizzica, del Conte Piercarlo Borgogelli, e grazie altresì all’opera di S. E. Mons. Giustino Sanchini, Vescovo di Fano, il ritorno dei Padri fu un fatto compiuto, e, quel che più importa, col consenso di tutta la cittadinanza, senza distinzione di partiti.
Il 14 aprile si veniva alla firma del contratto di cessione dell’Eremo, non ai Padri della Congregazione di Montecorona, ma ai veri figli di San Romualdo, gli abitatori dell’antico Eremo di Camaldoli.
Il Fondatore
Fondatore dell’Ordine fu Romualdo della famiglia ducale degli Onesti-Sassi, nato a Ravenna il 907.
Dati i tempi e data l’origine nobile, si può facilmente supporre qual fosse la sua educazione e, quindi la sua prima giovinezza, ma era altresì a pochi decenni dal Mille; onde più facilmente comprendesi la profonda conversione di Romualdo, determinata come, del resto, per tanti altri eroi della Chiesa da uno strano avvenimento.
Sergio, padre di Romualdo, per appianare una questione d’interesse sorta con un congiunto, sfidò questo, come allora usava, a duello, obbligando il figlio Romualdo, che aveva vent’anni, ad assistere alla lotta, pena la detenzione.
E siccome l’avversario di Sergio rimase sul campo, Romualdo ne fu così colpito che, come s’egli stesso ne fosse stato l’uccisore, si ritirò nel monastero benedettino di S. Apollinare in Classe, a qualche chilometro dalla città, per espiare il delitto con quaranta giorni di dure penitenze, imposti ai rei di omicidio.
Ivi, rimase così edificato della vita che vi si conduceva, da chiedere di vestir l’abito; il che avvenne non senza forte opposizione della famiglia.
Vi restò alcuni anni, fino a quando, col permesso del suo abate, dovette allontanarsene, perché insidiato nella vita dei monaci che egli riprendeva per la loro rilassatezza.
Si recò nel Veneto, mentre doge della Serenissima era quel Pietro Orseolo che fu messo a capo della Repubblica dalla fazione che aveva assassinato il doge Pietro Candiano.
L’Orseolo, inquieto per il modo in cui era pervenuto all’alta dignità, volle farne ammenda e, all’insaputa di tutti, accompagnato da alcune pie persone, fra le quali Romualdo, si recò in Catalogna, dove, nel convento di S. Michele di Cusano, vestì l’abito religioso.
Romualdo si ritirò in un eremitaggio del vicinato; ma furono tanti coloro che, ammirati delle sue virtù, gli chiesero di vivere con lui, che ben presto sorse ivi una comunità della quale egli fu eletto superiore.
Quante volte gli si presentarono alla mente i fantasmi degli agi lasciati, delle ricchezze e dei piaceri perduti; il timore e il dubbio della grazia, della salute eterna; ma egli ne trionfò; anzi, queste intime lotte non fecero che accrescere i suoi ardori, il suo zelo, le sue virtù.
Anche il padre Sergio ne fu così commosso che, per espiare i suoi falli, volle imitare il figlio, ritirandosi nel convento di S. Severo, presso Ravenna, però, pentito ben presto del passo fatto, pensò di uscirne.
Ciò saputo, Romualdo si accinse a tornare in Italia e, per effettuare questo suo disegno, dovette ricorrere a uno stratagemma, perché gli abitanti delle campagne dove egli dimorava si erano proposti di ucciderlo per non lasciarlo partire o per averne almeno il corpo.
Venuto in Italia e persuaso il padre a perseverare nella vita monastica, si ritirò di nuovo fra i monaci di Classe, dai quali fu eletto abate.
Tale carica, da lui umilmente rifiutata, gli fu imposta dall’imperatore Ottone III e, sotto pena di scomunica, dai vescovi radunati a Ravenna.
Corse di lì a poco a Tivoli, presso l’imperatore, a deporre ai suoi piedi, in presenza dell’Arcivescovo Gerberto, che fu poi papa Silvestro II, il pastorale, essendosi i monaci di Classe dimostrati tutt’altro che soddisfatti dell’elezione ad abate di un uomo così rigoroso.
Col suo ascendente sull’imperatore, salvò, in questa occasione, la città di Tivoli, già condannata al sacco; e all’imperatore stesso impose una grave pubblica espiazione per l’uccisione del senatore Crescenzio.
Anche il successore di Ottone, Enrico II, l’ebbe caro, e gli dimostrò la propria benevolenza col donargli il convento di Monte Amiata.
Dopo una vita di somma attività, di penitenza e di preghiera, Romualdo finì i suoi giorni nel convento di Val di Castro, nella Marca di Ancona, il 19 di giugno del 1027 in età di circa centoventi anni. Cinque anni dopo la morte, i suoi discepoli ottennero dal Papa di poter innalzare un altare sulla sua tomba; il che equivaleva allora alla canonizzazione.
Il suo corpo era ancora integro nel 1440; ma, dopo un tentativo di furto perpetrato nel 1481, andò in polvere.
Le ceneri furono trasportate nella Chiesa camaldolese di S. Biagio in Fabriano il 7 di febbraio: giorno in cui, da Clemente VIII, fu stabilita la festa di S. Romualdo.
Le sembianze di S. Romualdo ci furono tramandate dal pennello di Raffaello e da una mirabile terracotta di Luca della Robbia, che si ammira nella cappella di S. Antonio Abate nell’eremo di Camaldoli.
Gli eremi e gli eremiti
I conventi riformati o fondati da S. Romualdo furon moltissimi: si calcolano a più di cento; poiché, da una parte, egli ebbe una concezione rigorosa della vita monastica; dall’altra cresceva ogni giorno il numero di coloro che si mettevano sulle sue orme.
La biografia di lui, scritta appena quindici anni dopo la morte, da S. Pier Damiani, presenta in maniera addirittura commovente lo spettacolo dei ricchi, dei potenti, dei nobili, dei principi persone di tutte le età e di tutte le condizioni che si spogliavano d’ogni grandezza e d’ogni fasto per darsi a Dio nella oscurità del ritiro.
Un eremo fondò a Parenzo, uno a Bifurcum, uno a Val di Castro: molti ne riformò e ne fondò in Germania; parecchi nei dintorni di Roma; poi quello di Sistria, quello di Monte Amiata e, infine, quello di Camaldoli, presso Arezzo.
Altri ne sorsero in seguito, “e in sì gran numero che, nel secolo XVI, nella sola Italia, si contavano 232 badie e 35 monasteri, oltre i numerosi eremi”.
Il più celebre di tutti è quello di Camaldoli in Toscana, ove, nel 1526, dal V. Paolo Giustiniani fu portato un pezzo dell’avambraccio destro di S. Romualdo, ivi ora conservato in ricchissimo reliquiario. Le fondamenta di questo convento furono gettate intorno al 1010.
La località fu data a Romualdo da un tal Maldolo “onde Campo Maldoli” Camaldoli.
Non molto lungi dal convento sorge il romitorio che Romualdo fece edificare su la Giogana, un monte tutto coperto d’abeti e ricco d’acque correnti.
Romualdo istituì anche un’altra maniera di vita fra i suoi discepoli: quella dei “rinchiusi“; nessuno poteva dedicarvisi senza uno speciale permesso del superiore, il quale lo accordava soltanto a coloro che, essendo già vissuti a lungo nell’eremo, si dimostravano evidentemente chiamati a una maggior perfezione.
Gli eremiti che ottenevano tale permesso si rinchiudevano nelle loro celle per non uscire mai più; né parlavano mai che al loro Superiore, quando si recava a visitarli e al frate incaricato di portar loro il necessario.
La giornata eremitica
All’una di notte, d’inverno, e all’una e mezza d’estate, suona la campana maggiore dell’eremo chiamando al Coro, si torna al riposo alle tre.
Dal dì della fondazione, non una volta sola tacque la campana dell’eremo di Camaldoli; né neve, per quanto alta, né freddo, per quanto intenso, né bufera, per quanto pericolosa, impedirono al candido figlio di S. Romualdo di recarsi in chiesa per l’uffizio.
Gli eremiti si levano, generalmente, alle cinque e mezza: alle sei e tre quarti, tutti debbono essere in chiesa, per i comuni esercizi spirituali, alle otto, viene portato il caffè nelle celle: fino alle nove, attendono a qualche lavoro manuale; per lo più, provvedono alla coltivazione del giardinetto o orticello.
Alle nove, di nuovo in chiesa, per assistere alla conventuale, dopo la conventuale, mezz’ora di orazione, ciascuno nella cappellina della propria cella, quindi, lavoro ricreativo fino alle undici e tre quarti, quando si torna in chiesa per l’uffizio in comune.
A mezzogiorno, vien portato nelle celle, dalla cucina comune, il desinare, che è abbondante, ma sempre di magre, anzi, ogni venerdì, esso consiste in pane, acqua e frutta, e viene consumato seduti, a piedi nudi, sopra una tavoletta alta circa dieci centimetri.
Soltanto tredici volte all’anno, e cioè nelle così dette feste maggiori, gli eremiti pranzano nel refettorio comune, restando però in silenzio ed ascoltando la lettura spirituale di circostanza.
Dopo il pranzo, fino al Vespro, l’orario del Vespro varia, secondo la lunghezza delle giornate, dalle quattordici e mezza alle quindici e mezza, tempo libero, diversamente occupato; indi, il Vespro e il Rosario in comune, seguiti, nei giorni di martedì, giovedì e sabato d’estate, e di martedì e giovedì d’inverno, da circa due ore di passeggio, che si fa, generalmente, nelle foreste d’abeti e di faggi, annesse agli eremi.
Negli altri giorni, tempo libero fino al tramonto; quando tutti si riuniscono in chiesa per l’uffizio; per lo più, prima di questa riunione per l’ora di Compieta, si consuma la parca cena fredda; subito dopo, mezz’ora di meditazione nella cappelletta della cella.
Verso le venti, gli eremiti si coricano, vestiti, sul duro pagliericcio; col pensiero alla pia campana che, nel cuore della notte, li chiamerà alla preghiera.
Secondo quest’orario gli eremiti hanno a propria disposizione circa sette ore al giorno: ore che, se vogliono, possono dedicare allo studio.
Anche nella “Regola dei reclusi” è detto: “Giacchè il recluso non può maneggiare la vanga, maneggi la penna; invece di coltivare gli alberi, coltivi le lettere: così, sebbene morto alla società, vivrà per essa, e tanto durerà il vantaggio delle opere sue quanto durerà la vita dei suoi libri“.
Lo stemma camaldolese
Lo stemma camaldolese par che sia stato tratto da quello della famiglia Sassi; a destra la mitra, a sinistra il Pastorale, insegna abbaziali, in mezzo, tra due intrecci di rami di quercia, un calice con due colombe nell’atto di bervi.
Sopra il calice una stella caudata, lo stemma appunto dei Sassi sarebbe stato adottato dall’Ordine camaldolese, dopo aver sostituito il colle di mezzo col calice e i due leoni rampanti con le due colombe.
La biblioteca
La biblioteca è parte integrante dell’Eremo di Monte Giove, fondato nel 1608 e completato in tutte le sue strutture nel 1627. Con le soppressioni napoleonica prima e del nascente Regno d’Italia poi, i monaci vengono allontanati, l’Eremo venduto e la biblioteca dispersa.
Dal 1925, anno di acquisto del complesso monastico da parte dei monaci Camaldolesi di Toscana, anche la biblioteca viene ricostituita. L’attuale raccolta libraria proviene da diversi monasteri camaldolesi, da acquisti dei monaci e da donazioni di privati.
I locali che ospitano la biblioteca di Monte Giove si trovano nell’ala sud dell’Eremo.
Si tratta di una sala adibita ad emeroteca, una grande sala di consultazione e di studio e, a questa attigua, una sala con arredi lignei ottocenteschi che ospita la parte antica del fondo librario.
Il fondo antico comprende circa 1000 volumi a stampa dal XVI al XIX secolo con una prevalenza di testi di sacra scrittura, teologia, patristica e scienze umane.
Il fondo moderno, attualmente costituito da circa 5000 volumi, comprende opere principalmente in scienze religiose: Sacra Scrittura, Teologia, Spiritualità, Liturgia, Religioni non Cristiane, Storia della Chiesa, Patristica, Monachesimo, ma anche opere di Letteratura italiana e straniera Storia, Storia locale, Arte, Filosofia, Sociologia Economia e Management.
Sono presenti anche libri in lingua inglese.
L’emeroteca raccoglie diversi periodici attivi in abbonamento e possiede la raccolta completa di Concilium, Vita Monastica e Civiltà cattolica.
La biblioteca di Camaldoli, prima della invasione francese, contava oltre quattromila volumi importantissimi, fra i quali molti e pregevoli manoscritti greci e latini, pergamene, autografi, rarissimi incunaboli ornati di ricche e preziose miniature.
L’antica farmacia
Nella tradizione monastica medievale lo studio delle erbe e la loro coltivazione erano attività tradizionali, talora indispensabili per la sussistenza stessa del monastero che, per motivi di scelta religiosa, era isolato dal contesto sociale.
In tutti i monasteri c’era un hortus sanitatis dove venivano coltivate le piante medicinali, sotto la direzione del monachus infirmarius, un monaco con specifiche funzioni sanitarie, che, sulla base delle informazioni apprese dai libri e dell’esperienza, aveva l’incarico di curare i malati, monaci o pellegrini che fossero.
Ogni monastero coltivava tutte le specie compatibili con le condizioni ambientali del luogo e acquistava direttamente sul mercato le altre ugualmente necessarie alla preparazione dei medicamenti.
I monasteri divennero così nuclei di organizzazione sanitaria, dove si pensava anche all’aspetto legato alla ricerca di nuove soluzioni terapeutiche, in primis la preparazione di nuovi farmaci.
Le loro sperimentazioni, inoltre, consentirono di selezionare erbe dalle diverse proprietà che, una volta essiccate, erano poste a macerare in alcool, a volte anche distillate, quindi dopo essere state filtrate venivano utilizzate come bevande corroboranti e digestive.
La tradizione dei Monaci camaldolesi ha posto fin dall’origine particolare attenzione alla cura dei malati e alla formulazione di medicamenti; quella stessa cura che continuano ad avere ancora oggi nella produzione di tisane, liquori, creme e altri prodotti naturali preparati seguendo proprio le loro antiche ricette.
Come arrivare a Monte Giove
Con l’autostrada A14 si esce al casello di Fano; poi subito destra per Roma, dopo circa 1,5 km uscire a Fano-sud seguire l’indicazione per centro ortofrutticolo e per Rosciano, si attraversa la statale numero tre e si continua per l’eremo di Monte Giove.
In treno si scende alla stazione di Fano e poi si prosegue in taxi. Su di un’altura isolata a 223 m d’altezza, fra le fertili colline che si elevano sulla pianura solcata dal fiume Metauro.
Fonti documentative
P. D. Timoteo M. Chimenti, attuale Padre Maggiore dei Camaldolesi – S. Romualdo e il S. Eremo di Camaldoli.
G. Bertone – “L’EREMO DI MONTE GIOVE“, Casa Editrice “Fortuna”, Fano 1925
www.eremomontegiove.it
www.comune.fano.pu.it