Chiesa Tonda (Madonna di Vico) – Spello (PG)

La chiesa è stata completamente restaurata dopo il terremoto del 1997 ed è stata restituita al culto con Cerimonia Solenne il 14 Ottobre 2017.

 

Cenni storici

La chiesa della Madonna di Vico, detta anche chiesa Tonda per la sua particolare conformazione, è situata nella campagna spellana, sul punto di raccordo della strada provinciale che conduceva a Perugia con la via che scende dalla porta di Poeta.
Lungo questo tratto di strada (via Romana), interrotto nel suo percorso originario proprio all’altezza della Madonna di Vico causa la costruzione, negli anni ’60, dell’attuale superstrada, che collegava alla via Flaminia e che proseguiva per Asisium e Perusia, furono eretti fin dall’antichità monumenti funerari, edifici civili e religiosi.
A poca distanza, infatti, si possono vedere i resti dell’anfiteatro romano, quello che resta di un antico teatro (sempre romano), la chiesa di san Claudio, quella di san Fedele, la villa Fidelia, nell’area sorgeva il santuario federale degli Umbri con relativo complesso termale, poi ancora i resti dell’oratorio di San Nicolò di Vico fino ad una necropoli del VI-V secolo a.C.
Tutta la zona circostante, quindi, è ricca di testimonianze storico-archeologiche.
La presenza di manufatti romani potrebbe far pensare ad un piccolo insediamento romano da cui sarebbe derivato poi il toponimo Vicus, borgo ma anche tenuta.
Le vicende che riguardano l’edificazione della chiesa Tonda iniziano già nel ‘300, sono documentate nelle Cronache redatte dagli Olorini.
Intorno alle origini della chiesa aleggia una storia di sangue che ha come protagonisti Bartoloccio di ser Giacomo Bartoloccio, “che nel 1348 s’era fatto eleggere gonfaloniere perpetuo della Chiesa e, dopo molti anni di buon reggimento, ribellatosi al papa e messosi a capo dei ghibellini, diventò signore di Spello” e il suo consigliere Vico di Chiatta “uomo ricco ma di pessima vita“.
I due, dopo aver commesso molte crudeltà, furono riportati inizialmente sulla retta via dal fratello di Bartoloccio, vescovo d’Ippona, tanto che il Vico fece costruire, intorno al 1363, una maestà “ad honore della Beata Vergine, che poi si disse la Madonna di Vico o di Rosso“.
Rosso era l’appellativo di Vico per il colore della sua capigliatura; ma alla morte del vescovo, nel 1367, i due ripresero con le loro malefatte finché il Rettore del Ducato di Spoleto non ne pretese la testa da “una schiera d’assisiani” nel 1373.
Fin qui gli Olorini, la cui cronistoria non sempre è risultata attendibile, i quali narrano che poi il Comune sul luogo avrebbe fatto erigere anche una piccola chiesetta ma di questa non si è trovato traccia in alcun documento. Dell’edicola fatta erigere dal Vico, inglobata poi all’interno della chiesa che sarà edificata nel XVI secolo, rimane un paramento murario alla base dell’abside centrale e l’affresco attribuito a Bartolomeo da Miranda, attivo a Spello con altre opere.
Ma qui sorge il primo problema: se la maestà era stata eretta nel 1363, l’affresco può essere datato, invece, intorno al secondo quarto del XV secolo; o si tratta di una nuova decorazione oppure la maestà è stata costruita ben più tardi dei fatti narrati.
In un documento del 20 gennaio 1574, “Deposizioni giurate circa l’origine del convento e chiesa“, alcuni testimoni, alla presenza di frate Marinangelo da Fulgineo e di Pietro Ambrosini, in qualità di priori rispettivamente della Madonna di Vico e della chiesa di San Lorenzo, prestano giuramento dichiarando che chiesa e convento sono stati eretti a seguito dei molti miracoli operati dall’immagine della Madonna dipinta nella maestà di Pierangelo Barbagnacca, così che la comunità di Spello raccolse i fondi per erigere il monumento.
Ma il Pierangelo di Barbagnacca, cui viene attribuita la proprietà della maestà, altri non è che il Pierangelo di Ludovico citato dal Donnola, e negli atti dell’archivio storico del Comune di Spello, come donatore della maestà e due staie di terreno contigue, nel luogo ubi dicitur Vico proprio per permettere la fabbrica della chiesa. Che si tratti della stessa persona lo si ricava anche dal testamento dello stesso, redatto il 5 gennaio 1526, in cui figura come Pierangelo (di Ludovico) Barbagnacche.
Ma allora quel Ludovico, che ne sarebbe il genitore, potrebbe benissimo corrispondere (o esserne a sua volta il figlio) a quel Vico di Barbagnaccha che compare tra i creditori, a metà XV secolo circa, nei registri delle entrate ed uscite per i lavori a Santa Maria Maggiore.
Se la maestà fosse stata una sua costruzione o proprietà, visto che, comunque, aveva possedimenti nel luogo, sarebbe compatibile anche con la data della realizzazione dell’affresco, quindi il nome Vico per la chiesa potrebbe derivare, oltre che dal toponimo del luogo o da Vico di Chiatta, anche da Vico di Barbagnaccha.
Fatto sta che tale Maestà “ne la quale era depinta l’imagine de la sacratissima vergine Maria con il suo figliolo in grembio” (in realtà una Madonna del Latte), col tempo fu “tutta coperta da rovi e spine che a pena si poteva vedere; tuttavia le genti che passavano ivi vicino non si stancavano de rimirarla e se raccomandavano devotamente a quella. Et avanti l’anno 1514 cominciò a fare molte gratie e miracoli“.
L’evento che portò la comunità a raccogliere una gran quantità di offerte, tramite la raccolta dei santesi, ed i tanti lasciti testamentari che poi si sarebbero susseguiti per molti anni, si verificò nella seconda metà del 1514 ed è descritto negli Annali dei Serviti: “Nell’anno 1514 veniva portato alle reliquie di San Felice Martire un bambino gravemente ammalato, dai propri genitori; essi volevano implorare la salvezza dall’intercessione del Santo, come era solito farsi allora per i fanciulli infermi in tutta la zona. Mentre però tornavano a casa, il piccolo morì tra le braccia della mamma; sopraffatti dal dolore, giunsero ad una piccola immagine della Madonna posta lungo la strada nei pressi di Spello; lì, con grandi pianti e forti lamenti, la supplicarono di restituire loro il figlio; ciò che avvenne all’istante, per cui vi furono grandi manifestazioni di gioia fra tutta la popolazione“.
E, in effetti, laddove ora è presente la chiesa di san Fedele, incastonata nelle mura perimetrali di Villa Fidelia, il luogo era identificato allora come il sito dove era stato sepolto san Felice dopo il suo martirio e da lì poi trasportato a Giano sui monti Martani.
Il luogo era oggetto, secondo il Donnola (Fausto Gentile), di pellegrinaggi da parte di molti fedeli, soprattutto era usanza delle mamme domandare al santo la guarigione dei bambini malati ed i moltissimi ex voto che vi erano conservati ne attestavano le grazie ricevute.
Viene ricordata in alcuni atti notarili come ecclesiam sancti Felici in vocabulo Vici.
La popolazione, rimasta sbalordita dal miracoloso avvenimento, si diede da fare e, raccolta una notevole somma di denaro, fece costruire la chiesa alla quale i Serviti aggiunsero il convento.
Nel 1517 iniziò la costruzione del convento e, nell’archivio del Comune di Spello, è conservato l’istrumento del notaio Paolo di Pietro di Sensino Crudeggi con il quale si affidò a Giovanni e Bartolomeo da Domodossola la costruzione de “la casa della Madonna di Vico” (domum dive Marie in Vico de Spello).
Questo per quanto riguarda il convento, mentre per la chiesa non si è reperito alcun documento, forse i lavori sono iniziati nel 1515 (quando i Baglioni ne affidarono la futura gestione ai Servi di Maria), forse in contemporanea con il convento e magari con le stesse maestranze anche se è da dubitare che avessero le competenze per portare a termine un progetto così complesso.
Che la costruzione sia avvenuta in simultanea lo proverebbero alcuni punti di collegamento tra le due strutture. All’interno della chiesa venne inglobata la primitiva maestà con l’affresco della Madonna del Latte, purtroppo completamente danneggiato (forse asportato) sul finire del secolo scorso quando la struttura è rimasta alla mercé dei vandali.
Dunque, secondo i documenti presenti nell’Archivio Comunale, furono i magistri lombardi (così erano genericamente definiti gli esperti dell’ars murandi che provenivano dal nord Italia) ad essere incaricati del lavoro di costruzione della domus che doveva servire come convento per i frati e, probabilmente, anche della chiesa.
La loro presenza a Spello è documentata già nel XII secolo per poi divenire più consistente proprio nei secoli XV e XVI.
Si trattava di artigiani molto esperti nella lavorazione della pietra e nell’allestimento dei ponteggi che, partendo dalla Lombardia e zone limitrofe, si spostarono a lavorare in molti cantieri in diverse regioni italiane ma anche all’estero.
Lavoravano in squadre, generalmente legate da vincoli familiari, con le quali potevano assicurare un servizio completo dai muratori ai fornaciai, ai ponteggiatori, ai carpentieri fino a fornire anche un servizio di architetto progettista; in tal modo assicuravano la copertura di tutte le competenze necessarie costituendo un unico interlocutore con la committenza.
I magistri lombardi presenti a Spello erano più precisamente magistri ossolani perché provenivano dalla val d’Ossola il cui centro più importante era ed è Domodossola ed è per questo che nei documenti si citano i “magistri Iohanni e Bartolino de Domodossola de partibus Lombardie“.
Dietro la costruzione del monumento, affidato ai due esperti maestri di pietra, Giovanni e Bartolino o Bartolomeo da Domodossola, si scorgono, insomma, discrete disponibilità finanziarie e una sapiente pianificazione.
Una regia che è da imputare ai Baglioni, signori di Spello, che, in quegli anni, avevano subito un ridimensionamento a Perugia e nei feudi (di cui Spello era la “capitale“) e cercavano un rilancio attraverso una politica mecenatizia, portata avanti in loco da Leone Baglioni, figlio naturale di Gian Paolo e priore della collegiata di Santa Maria Maggiore.
Questa famiglia, seppur abbia di fatto spinto alla realizzazione del santuario e pur essendo in ottimi rapporti con i Serviti, di fatto però non ha lasciato traccia del proprio mecenatismo alla Madonna di Vico (e pensare che avevano portato a Spello artisti come il Pintoricchio e il Perugino).
Dall’archivio dell’Ordine si apprende che i Serviti o Servi di Maria iniziarono il loro incarico di cappellani nel 1515 e nel 1518 doveva esistere già una struttura ben definita se il 4 novembre 1518 è già presente nel convento un priore dei Servi di Maria, nella persona di frate Agostino di Viterbo.
La chiesa fu consacrata, come dimostrano i rituali segni di croce disposti lungo le pareti, ma si ignora quando e da chi.
La struttura della chiesa rispecchia quelli che erano i dettami dell’architettura rinascimentale così come erano stati codificati da Leon Battista Alberti nel suo “De re edificatoria“.
Secondo la definizione albertiana la bellezza consiste nell’integrazione razionale delle proporzioni di tutte le parti di un edificio, in modo che ciascuna di esse abbia dimensioni e forma assolutamente definite, e nulla possa essere aggiunto o rimosso senza distruggere l’armonia dell’insieme.
Addirittura si giungeva ad affermare che le funzioni sacre hanno ben poco valore se la chiesa non è stata costruita “con debita proporzione“.
Di conseguenza sono impartite istruzioni minuziose per tutte le proporzioni della chiesa ideale, ad esempio le dimensioni delle cappelle in rapporto al nucleo centrale, l’altezza dei muri fino all’inizio delle volte in rapporto al diametro, e così via.
Questo rispetto delle proporzioni è applicato anche alla Madonna di Vico: la chiesa presenta una struttura a trifoglio (o a triconco) con tre absidi attorno nel rispetto di semplici rapporti proporzionali tra i suoi elementi.
Delle tre absidi le due laterali hanno le stesse dimensioni e sono più piccole di quella posteriore che può essere inscritta in un rettangolo con le stesse misure di quello della navata d’ingresso.
L’ampiezza del vano centrale è pari al doppio della profondità delle absidi laterali.
La rigida geometria che regola i rapporti tra i vari elementi regola anche l’altezza: il livello di gronda delle absidi laterali è la metà esatta dell’altezza totale (nella ristrutturazione, operata nel ‘900, sono state rialzate le falde di copertura del triconco per cui quest’ultima proporzione è falsata) e così via.
La struttura a pianta centrale era la più usata in quel periodo e ritenuta la più adatta per le chiese dedicate alla Vergine, come in questo caso, e ciò era collegato al simbolismo inerente la sua figura, la corona di regina del cielo, la circolarità dell’universo, ecc.
Questa correlazione tra il culto mariano e l’architettura a pianta centrale potrebbe aver indotto i Padri Serviti, cui fu affidata l’erigenda struttura già nel 1515, a dare gli opportuni suggerimenti ai magistri esecutori, ormai esperti traduttori delle indicazioni in pregevoli opere di architettura.
I quasi coevi cantieri del tempio della Consolazione a Todi e del santuario della Madonna della Bruna a Castelritaldi, dove operarono maestranze lombarde, potrebbero aver funzionato da modelli.
Dall’Archivio Generale dei Servi di Maria sappiamo che il convento attiguo alla chiesa Tonda era “di strettura assai capace e comoda e di conveniente fabrica. Ha per habitatione di frati nove camere con sette letti, che anco ponno servire per li forestieri. Un’altra stanza che serve per granaro, et un’altra per conserva dell’oglio, biada, noci et altre cose simili, e vi è il suo refettorio, cantina, cucina e cucinotto ove si lavano e conservano piatti e pignatti. Un’altra stanza ov’è torsulo da spremere l’uva con il suo canale. Un cortile con la sua cisterna in mezzo, et un orticello appresso e stalla ecc…“.
Il convento è rimasto con la stessa struttura interna fino a circa il 1960, quando l’ultima famiglia colonica apportò alcune modifiche.
La chiesa doveva versare come tributo uno scudo e cinque libbre; cifra che, confrontata con i tributi delle altre chiese, denota una discreta estensione del suo territorio.
Tutte le entrate del Santuario in origine rimasero in mano alla Comunità ed ai Santesi, solo il 13 novembre 1553 furono prese in carico dai Serviti, i quali, però, non dovettero rimanervi a lungo in forza della soppressione ordinata da Papa Innocenzo X nel 1652.
L’elenco completo dei possedimenti è nella “Relatione” compilata nel 1650; tra donazioni, lasciti ed acquisti la Madonna di Vico aveva poderi in vocabolo Caminata, Limiti, Chiusi, ecc. oltre a vigneti ed oliveti attorno al convento ed in zone montane (in tutto sei poderi più tre oliveti esclusa la terra intorno al convento). Nel 1650 l’entità delle entrate riportate nella “Relatione” è praticamente la stessa di un documento del 1625 (scudi 268 e baiocchi 10 contro scudi 268), ciò che varia sensibilmente sono le uscite (scudi 243 e baiocchi 62 contro scudi 82,50).
Il forte aumento delle uscite è da attribuire all’ultima assegnazione di altri frati, visto che gli obblighi da osservare erano rimasti gli stessi, due anniversari e 48 messe perpetue.
Tra il 1652 e il 1658 i frati abbandonarono il convento che non compare nell’elenco del 1705, segno dell’avvenuta soppressione.
I religiosi si ritirarono dalla Madonna di Vico che non officiarono se non recandovisi appositamente da Foligno; “Furono costretti ad abbandonarlo per la mancanza dei mezzi necessari al sostentamento di un numero di frati adeguato a mantenere il necessario servizi alla Chiesa“.
Vi erano rimasti appena un secolo, cominciò così quell’abbandono che si è protratto fino a tempi recenti.
Poco dopo la soppressione, in vari documenti datata al 1659, il complesso entrò a far parte dei beni del convento di San Marcello di Roma gestito dallo stesso Ordine, ma la gestione non durò a lungo visto che, in data 30 aprile 1661, secondo l’Archivio storico del Comune, il convento fu acquistato dai padri Serviti del vicino convento di San Giacomo di Foligno ad un prezzo stimato di 2.500 scudi da pagarsi in varie rate.
Le ultime notizie riguardanti la chiesa si hanno nelle varie visite pastorali dei vescovi di Foligno (nel 1772 il territorio di Spello fu inglobato nella diocesi di Foligno in virtù di una costituzione di Papa Clemente XIV), finché, il 31 luglio 1861, il complesso passò al Demanio nazionale.
Nel 1869 il complesso fu acquistato da Girolamo e Pietro Clarici di Foligno, senza che il Comune ne fosse a conoscenza; i coloni dell’ex convento continuavano a tenere le chiavi e ad utilizzarla come fienile o deposito di legname.
Dopo alcune traversie la chiesa passa alla gestione da parte del Fondo per il Culto e da questo viene ceduta, nel 1880, al Comune con l’obbligo “di provvedere a tutte sue spese alla relativa custodia e conservazione“, ma lo stesso non riesce a soddisfare a tali esigenze e vi furono tentativi di rivenderla a Clarici che si sarebbe dovuto far carico delle spese.
L’operazione non decollò e la chiesa nel 1924 aveva seri problemi al tetto e le infiltrazioni di acqua stavano danneggiando gli affreschi.
Solo nel 1939 con l’intervento finanziario (lire 19.000) di don Bernardo Angelini, priore della Collegiata di San Lorenzo, si poté restaurare l’edificio, il Comune partecipò con l’esigua cifra di lire 1.000.
La chiesa smise di officiare intorno al 1955 dopodiché è stata completamente abbandonata; dal 1974, quando partì l’ultima famiglia contadina, anche il convento è rimasto completamente abbandonato, alla mercè di atti vandalici che ne hanno accelerato il disfacimento.
Nel 1980 ci fu un tentativo di sottrazione anche della campana di bronzo del ‘500, fortunatamente evitato quando era già stata calata dal campanile pronta per essere asportata.
La Madonna di Vico nella dizione popolare è conosciuta come la chiesa Tonda, il perché lo facciamo dire allo stesso don Bernardo Angelini: “… rimane dolcemente colpito dalle forme di quella chiesa che apparisce tra il verde delle querce e dei cipressi. Semicircolari sono le tre absidi della chiesa a croce greca, quasi circolare la cupola ottagona. Quel piacevole e armonioso insieme di linee curve l’ha fatta chiamare chiesa Tonda“.
Grazie a questa armonia di forme la chiesa compare in molti testi sull’architettura rinascimentale, tra questi lo studio del Laspeyres, quello del Wittkower, del Bruschi, nonché compare tra i cento capolavori del Rinascimento italiano di Michele Furnari.
 

Aspetto esterno

All’esterno si notano le tre maestose absidi corrispondenti ai transetti interni; la facciata a terminale orizzontale presenta un oculo e sotto, perfettamente in asse, si apre un portale con due plinti sui quali compaiono, a sinistra, lo stemma di Spello e la data 1539, mentre a destra spicca l’insegna dei Servi di Maria; su di essi poggiano due paraste scanalate e rudentate con capitelli ornati da foglie d’acanto e volute.
L’insieme sorregge un doppio architrave sovrastato da un timpano con molteplici modanature, il tutto inquadra un arco a tutto sesto con capitellini sagomati e angoli mistilinei in peperino.
Un piccolo campanile a vela si imposta sul lato destro del coro.
 

Interno

Si tratta di una fabbrica a “Croce greca“, con una corta navata quadrangolare sulla quale si innestano tre absidi semicircolari che danno alla pianta un andamento a trifoglio con poche ma ampie aperture che le conferiscono una notevole luminosità.
Al centro della chiesa, sotto la cupola ottagona, isolato e leggermente rialzato, sorge l’altare maggiore che ingloba l’edicola campestre con l’immagine venerata, una Madonna del latte, affrescata nella prima meta del XV secolo da Bartolomeo da Miranda.
Entrando subito a sinistra si vede una nicchia con un affresco su due registri; in alto, nella calotta, sopravvive solo l’immagine dell’Eterno seduto su un letto di nubi, in atto di incoronare; figura pertinente ad un’Incoronazione della Vergine tra due angeli genuflessi, in basso vi erano la Madonna col Bambino e Sant’Anna tra San Giuseppe, San Michele arcangelo e due angeli in volo reggicortina.
Dell’affresco sopravvive solo l’Eterno e un deteriorato San Michele e la sinopia al centro.
L’opera datata 1533 era firmata, in una tabella alla base del trono, dal folignate Bernardino Mezzastris, figlio del più noto Pierantono: EGO BE[ … ]ARDINUS DE MEZZASTRIS DE[ … ] FECI[ … ] A. D. 1533.
Continuando sul fianco sinistro c’era un dipinto murale realizzato sulla faccia laterale del primo pilastro a sinistra raffigurante San Rocco con la scritta: QUESTA FIGURA LA FATTA FARE [ … ] DE SPELLO MDXXVII anno della peste che fece numerose vittime; l’affresco, attribuibile al pittore spellano Tommaso Corbo, purtroppo è stato staccato o strappato e di conseguenza trafugato.
La mostra dell’altare è composta da un complesso architettonico piuttosto elaborato con una complessa struttura a scacchiera è scandita da cornici in pietra finemente lavorate, attribuite a Rocco da Vicenza, e “colmata” da affreschi di soggetto cristologico.
Lo spazio di centro del dossale è occupato da una cornice semicircolare che racchiude una conchiglia, ai lati di questa erano ripetuti (tuttora presenti) gli stemmi del Comune di Spello e quello dell’Ordine dei Servi di Maria.
Tutto ciò fu divelto e trafugato in tempi imprecisati ma, dalle immagini precedenti al furto, si evince che doveva trattarsi di un lavoro di notevole qualità.
In una nicchia incassata era posta l’immagine miracolosa della Madonna del Latte assisa in trono con un drappo steso dietro le spalle attribuita a Bartolomeo da Miranda anche questo dipinto staccato e trafugato ne restano solo documentazioni fotografiche.
Gli affreschi che occupavano gli spazi laterali superiori del tramezzo ai lati della conchiglia, oggi possiamo distinguere soltanto a sinistra una Resurrezione e a destra molto frammentaria le Marie al Sepolcro, nei due spazi sottostanti sappiamo che erano rappresentati il Noli me tangere e la Cena in Emmaus, ora non più visibili.
Sulla mensa dell’altare era collocata Pietà di terra cotta a tondo che recava dipinta la data 1536; in realtà si tratta di un Vesperbild, salvato, grazie ad un provvidenziale e tempestivo intervento di trasferimento, ed oggi esposta nella Pinacoteca Civica spellana.
La parola “Vesperbild” significa letteralmente immagine del tramonto, o del vespro, e sta ad indicare una serie di piccole sculture in legno dipinto, in gesso o in terracotta, che rappresentano la Madonna seduta che sostiene, sulle proprie gambe, il corpo esanime e irrigidito di Gesù, morto la sera del venerdì santo.
Questa rappresentazione non è riconducibile ad alcun racconto presente sui Vangeli, né, eventualmente, sui testi apocrifi che narrano le vicende della vita di Cristo; una invenzione, dunque, o più semplicemente una interpretazione popolare di ciò che verosimilmente potrebbe essere accaduto subito dopo la deposizione di Gesù dalla croce.
Scendendo sulla parete destra nella concavità orlata da una doppia fascia con un motivo a nastro intrecciato rimangono frammenti di affresco; in alto si vede un’Annunciazione, separata dalla scena inferiore da un architrave curvilineo sul quale compare la scritta in caratteri capitali: HOC OPUS FECIT [FIERI] [ … ]ILIUS VENAN [ … ].
Dicitura da riferire al committente e, più in basso, restano brani di quella che era una Maestà, della quale si distinguono tracce di sinopia e la parte inferiore del manto delle Vergine, un’impronta della figura di San Silvestro e i polpacci di San Michele.
 

Bibliografia

C. Fratini – Santa Maria di Vico La chiesa Tonda, Breve storia di un Santuario “Fallito” – 2020
C. FRATINI – Immagini devozionali, artisti e committenti: Precisazioni su alcuni Santuari e Luoghi di culto dell’Umbria – in Santuari d’Italia Edito dalla Provincia di Perugia
S. Stoppini – “La Madonna di Vico (Chiesa Tonda)” – Gedi Editrice 2021
 

Nota di ringraziamento

Faccio presente che la maggior parte delle informazioni sono tratte dal libro Web pubblicato da Saulo Stoppini che gentilmente mi ha passato i testi; ricordo a tutti che il libro è consultabile al link:

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/613760/la-madonna-di-vico-chiesa-tonda/

ma solo le prime trenta pagine, però, sempre attraverso il link è possibile fare l’acquisto in rete, cosa che consiglio convintamente.
 

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