Chiesa di Santa Teleucania – Morro d’Alba (AN)
Cenni Storici
La chiesa, antistante alla piazza Tarsetti, ha una struttura a capanna con un’unica navata e copertura a due falde. La facciata presenta due ordini di quattro paraste che contengono nella parte superiore una finestra rettangolare che illumina l’interno e in quella inferiore il portale in pietra serena che si richiama a elementi decorativi classici e rinascimentali, ampiamente utilizzati nelle Marche tra Seicento e Ottocento. L’interno ripete la semplicità esterna con l’unica modanatura aggettante sulla quale poggiano la volta a botte dell’aula e l’abside semi esagonale. L’edificio è stato voluto da Pietro Antonio Ludovici nel testamento del 31 gennaio 1661, redatto nello stesso giorno della morte. Con esso lascia una sostanziosa eredità in beni mobili e immobili (i poderi hanno una superficie complessiva di circa 130 ettari), con le cui rendite si deve edificare una chiesa da dedicare all’Annunciazione e si devono mantenere un rettore appartenente alla sua famiglia più sei cappellani, che il rettore stesso deve scegliere all’interno del clero di Morro. Tutti e sette hanno l’obbligo di celebrare cinque messe la settimana, l’offizio della Madonna il sabato e nelle feste a lei dedicate e di cantare una messa il lunedì. Attenta esecutrice testamentaria è la vedova Giovanna Paolucci, la quale nel 1666 dà inizio ai lavori, che terminano nel 1668, per cui il 4 maggio 1670 viene celebrata la prima messa da don Lorenzo Novelli, discendente del Ludovici. La donna muore nel 1680 e vuole essere sepolta nella chiesa assieme al marito, il cui corpo vi è stato già traslato. Immediatamente dopo il rettore Novelli nomina sei cappellani, rispettando in tal modo il volere dello zio. Dalle visite pastorali risulta che la chiesa per oltre un secolo non riceve lasciti testamentari, per cui è evidente che non si è instaurato un rapporto simpatetico con la popolazione locale. Nel 1819 però i fratelli don Angelo e don Francesco Remedi, due dei sei cappellani allora in carica, ottengono da Roma il corpo della martire Santa Teleucania, che viene esposto al pubblico dal 1835 nell’unico altare esistente nell’edificio. Sulla parete absidale destra, un’iscrizione dipinta ricorda: REPARATIONEM ECCLESI- AE / ALTARE NOVUM: ORNAMENTUMQUE SUUM: / SE- PULCRUM: TEMPLIQUE PINNACULUM / ANGELUS ET FRANCISCUS DE REMEDIIS FRATRE[s] / UNA CUM BERARDO DE BERARDIS CAPPELLANI / POPULO ADIU- VANTE CURARUNT. MDCCCXXXVI [Nel 1836 i cappellani fratelli Angelo e Francesco Remedi, insieme a Berardo Berardi, con l’aiuto della popolazione, provvidero al restauro della chiesa e alla costruzione del nuovo altare, della sua decorazione, del sepolcro e del campanile]. Il nuovo altare ligneo è costruito appositamente per contenere il sarcofago ed ha il paliotto amovibile per celare l’urna per gran parte dell’anno e mostrarla ai fedeli solo in rare occasioni. In stile Impero tardo e semplificato, in un Inventario degli Annali sacri dell’Ottocento viene descritto “alla romana, pitturato a marmo, con sotto il corpo di S. Teleucania […] con un suo ciborio in legno dorato”. Da allora la chiesa è nota sia con l’intitolazione originaria sia con quella della Santa, alla quale da allora vengono dedicati molti ex-voto per le grazie ricevute, che in parte sono andati dispersi. Dal 1815, quando muore l’ultimo discendente diretto del Ludovici, inizia una secolare controversia giudiziaria tra gli eredi collaterali e il Comune, al quale secondo il testatore doveva andare il beneficio laicale nell’eventualità della estinzione – nell’ordine – delle famiglie Novelli, Benedetti e Roberti. I Roberti-Piissimi di Ostra e i Lauri-Roberti di Recanati finiscono con dissipare la loro metà del patrimonio, mentre il Comune riesce a conservare la propria parte e il possesso della chiesa, che viene formalizzato nel 1879 quando si ottiene dal Demanio lo svincolo dell’edificio e dei poderi annessi. Dopo l’accordo con la Diocesi di Senigallia del 1985 e dopo un lungo lavoro di restauro diretto dall’architetto Roberto Rossini, l’aula liturgica viene convertita nel 1997 in auditorium per manifestazioni culturali, mentre le cantine sottostanti, dove un tempo erano conservati i prodotti ottenuti dal ricco patrimonio terriero (nel Settecento ci sono 16 botti con circa 115 ettolitri di vino e nel 1914 viene aggiustato il torchio ivi esistente), sono utilizzate come spazio espositivo. Sulla parete di sinistra dell’auditorium è appesa la pala con l’Annunciazione (in origine posta sopra l’unico altare), come aveva voluto Pietro Antonio Ludovici, mentre su quella di destra ci sono altri due quadri che in origine erano disposti l’uno di fronte all’altro lungo la navata. Altri quadri più piccoli, definiti nel 1738 “assai ordinari”, sono stati trasferiti nell’aula consiliare insieme ad alcuni arredi della ex sagrestia. La pala d’altare (presumibilmente collocata al suo posto nel 1670 al momento della celebrazione della prima messa) presenta, in modo difforme dall’iconografia tradizionale dell’Annunciazione, due parti separate da un gradino di pietra. Quella superiore contiene la scena classica con l’Arcangelo che tiene in mano dei gigli simbolo di purezza, con la colomba e la luce divina che scendono dall’alto tra un coro di putti festanti e con la Madonna che umilmente accetta il messaggio. Il libro che stava leggendo le è caduto di mano nel momento di sorpresa e di smarrimento all’arrivo dell’Arcangelo e ciò costituisce un’altra variante rispetto alla consueta iconografia, secondo la quale il libro viene deposto su un mobile, che qui si intravvede tra la due figure. Nella parte inferiore tra altri putti sono presenti – come voleva il Ludovici – S. Giuseppe e Sant’Antonio da Padova. Il primo è intento a leggere le sacre scritture per trovare una risposta dopo il messaggio avuto in sogno da un angelo ed è illuminato dalla stessa luce che proviene dall’alto, come lo è pure il putto alato che tiene in una mano un altro giglio, mentre con l’altra indica l’uomo: questo gesto e la continuità della luce vogliono legare l’annuncio ricevuto dalla Vergine a quello ricevuto dall’uomo. Ai suoi piedi alcuni putti stanno giocando con gli strumenti da falegname, attributi simbolici del Santo protettore degli artigiani. Sulla destra Sant’Antonio da Padova, in atteggiamento estatico di fronte all’evento, ha vicino a sé un altro putto con in mano un giglio, che è caratteristico anche dell’iconografia del Santo. Il tema dell’annuncio è presente anche nei quadri della navata, che in tal modo costituiscono un intero ciclo pittorico. Infatti in quello della Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta c’è di nuovo la luce divina che scende dall’alto dei cieli tra alcuni putti per illuminare le due donne – ma soprattutto Maria – perché ognuna attende un figlio (Gesù e Giovanni Battista) secondo la volontà di Dio. Solo in parte la luce colpisce anche il viso di S. Giuseppe. In basso a destra due putti, parzialmente coperti da due drappi rossi e azzurri come le vesti di Maria, reggono delle rose (quelle senza spine sono uno dei simboli della Madonna). Nell’ultimo, ancora una luce divina illumina S. Giovanni Battista, che con il classico cartiglio contenente la frase ECCE AGNUS DEI annuncia al mondo la presenza del Salvatore. Ai suoi piedi c’è l’agnello, il suo principale attributo iconografico, e sulla destra c’è di nuovo Sant’Antonio da Padova. In basso, tra i due Santi ancora un mazzo di gigli. Le tele si caratterizzano sia per l’equilibrio compositivo e per l’eleganza formale che richiamano il classicismo del Maratta, sia per la luce che attraversa le scene e per l’uso dei colori che dimostrano un influsso di scuola veneta. Nello stesso tempo però l’attenzione alla realtà e le espressioni un po’ popolareggianti dei volti fanno pensare ad un autore marchigiano. Quei monti azzurri, che canterà Leopardi, presenti sullo sfondo della tela di S. Giovanni non possono che avvalorare tale ipotesi.
IL PATRIMONIO STORICO-ARTISTICO di Morro d’Alba
testi di
Carlo Vernelli Lucia Zannini
contributi di
Marialisa Pettinari Silvia Vernelli Lucio Ottaviani