Chiesa di S. Giacomo della Romita – Cupramontana (AN)
Cenni Storici
La chiesa si trova all’interno del convento dei Frati Minori, del secolo XII, intitolato al Beato Giovanni Righi, che qui è sepolto. Ha una pianta ad aula divisa in cinque campate di ampiezza diversa, alle quali segue un grande presbiterio quadrato, quindi il coro e poi l’abside semicircolare. L’ingresso avviene direttamente dall’ampio piazzale antistante, previo passaggio nel nartece. Il complesso del convento si sviluppa su due piani fuori terra, ha struttura in muratura e prospetti in laterizio.
La zona di ingresso, e quindi la facciata principale, è caratterizzata da un nartece a tre fornici con campate a volta a crociera; questo elemento contribuisce ad alleggerire il fronte in laterizio che si presenta con questo avancorpo porticato, dotato di tre finestre al livello superiore e di una copertura a falda unica, parallela al profilo della facciata. Il corpo della navata emerge al di sopra del tetto del nartece e mostra la sua tripartizione ad opera di lesene, che sostengono l’architrave del timpano di coronamento; la grande specchiatura centrale è dominata da una finestra di stile misto tra Cinquecento e Settecento.
L’interno della chiesa è scandito da una fitta articolazione volumetrica dei muri longitudinali, lungo i quali si alternano per ogni campata nicchie diverse sia per forma che per dimensione. Le più grandi, due su ogni lato, sono strutturate per contenere delle pale d’altare, e in alto vi corrispondono delle aperture di grandi finestre. Il catino absidale e la volta a botte ribassata della navata sono realizzate in cannicciata, posta a coprire la struttura a capriate del tetto. La composizione architettonica dell’interno è caratterizzata dalla distinzione della parte inferiore da quella superiore per mezzo di un alto architrave composito, che sembra essere sostenuto dalle tante paraste con stilobate e capitello. La parte superiore della chiesa è segnata dalla prosecuzione di questi elementi in forme però più semplici. Degno di nota è il bellissimo coro ligneo alle spalle dell’altare, separato da quest’ultimo attraverso un tendaggio.
Cappella del Beato Giovanni Righi
Tra i tanti spazi che fanno parte del convento va evidenziata una deliziosa cappella ad aula, collocata in senso perpendicolare al muro sinistro della chiesa e accessibile da questa attraverso una scala che scende alla sua quota di calpestio. Qui vi è sepolto il Beato Righi. La cappella è stata realizzata e costruita da Angelo Sandroni.
Il convento di San Giacomo della Romita era un priorato monastico camaldolese ed è anteriore al secolo XIII. L’annessa chiesa è quindi anteriore al secolo XII. Romita indica tutto il territorio che ha come asse la strada che porta al convento stesso. Nel 1426 il priore don Venanzo accolse nel convento San Giacomo della Marca. I Francescani presero possesso del monastero nel 1452; la chiesa era in pessime condizioni e così, all’inizio del XVI secolo, i Francescani la ricostruirono decorandola anche con un bellissimo quadro in terracotta, opera di Pierpaolo Agabiti, rappresentante la Madonna, San Giuseppe e San Giacomo della Marca. Negli anni 1516/1517 trascorse nel convento il suo periodo di noviziato Ludovico Tenaglia da Fossombrone, iniziatore della riforma cappuccina. Nel 1539 morì nel convento il Beato Giovanni Righi da Fabriano, dopo avervi condotto un’austera vita di solitudine, di preghiera e di penitenza. Il corpo del Beato riposa ancora nella chiesa annessa al convento. Nel secolo XVIII i religiosi Osservanti cedettero il posto ai Riformati, che nel 1782 rinnovarono completamente la chiesa su disegno del frate camaldolese Padre Apollonio Tucchi, eremita del vicino Eremo delle Grotte. I lavori durarono dal 1782 al 1786. Con il decreto napoleonico di soppressione degli ordini religiosi del 25 aprile 1810 i religiosi furono espulsi. Il convento, con gli annessi orto e selva, fu acquistato da un tale Antonio Beutherin, francese domiciliato ad Ancona. I religiosi tornarono nel convento nel 1817, ma solo nel 1828 si potè recuperare una parte dell’edificio con un tratto di terra per l’orto. L’eremo, insieme alla chiesa, venne chiuso per decreto del 7 luglio 1866, e i monaci furono nuovamente cacciati a forza. Quando vi tornarono non trovarono molti dei loro beni, compresa la ricca biblioteca. Fortunatamente l’esilio durò un tempo limitato: convento e chiesa furono riaperti l’11 giugno 1874. Alcuni restauri eseguiti in quegli anni resero il convento come lo si vede oggi. Una targa posta sulla pavimentazione esterna sotto al nartece ricorda il rifacimento della stessa nel 1955, con il contributo della Cassa di Risparmio di Cupramontana. Il forte terremoto che colpì l’Umbria e le Marche nel 1997 arrecò notevoli danni sia alla chiesa sia al convento stesso; si resero pertanto necessari lavori di recupero e ripristino. Nel 2000 terminarono i lavori di restauro e ristrutturazione dell’intero complesso, in particolare della chiesa, anche internamente. Con l’occasione è stata rivista la situazione impiantistica all’interno dell’edificio di culto, con il rifacimento degli impianti elettrico e di illuminazione.
Un calice avvelenato per frate Giacomo
“Dum enim sanctissimus noster papa Nicolaus V, 1449, de mense novembris, miserat venerabilem patrem fratrem Ioannem de Capistrano et me fratrem Iacobum de Marchia, ordinis minorum, ad reducendum illa castra haeretica Maioreti, Massatii, Podii et Meruli – quae reducta sunt ad gremium fidei et abiurata sunt in manibus nostris…” (Dialogus contra fraticellos, n.111)
Dunque, nel 1449, Jacobus de Marchia, ovvero S. Giacomo della Marca, si trovava a Jesi insieme a Giovanni da Capestrano. Quell’anno segna la vittoria finale sulla setta eretica dei “fraticelli”, diffusa nella Vallesina, con insediamenti particolarmente consistenti a Maiolati, Poggio Cupro, Mergo e Massaccio (l’odierna Cupramontana).
L’opera di “normalizzazione” – culminata con la condanna al rogo di circa una decina di fraticelli – era iniziata 25 anni prima. Per combattere la setta, Giacomo aveva incardinato un gruppo di francescani nel monastero camaldolese della Romita, con lo scopo di presidiare la zona.
Ma chi erano e cosa volevano i tanto temuti fraticelli?
Chiamati anche Michelisti (dal nome di Michele da Cesena che abbiamo già conosciuto come superiore generale dell’Ordine, poi scomunicato e proscritto) in nome della Povertà, avevano assunto atteggiamenti di aperta ribellione contro la Chiesa, ormai considerata retta da Papi illegittimi, a partire da Giovanni XXII (morto nel 1334) accusato di simonia.
È lo stesso Giacomo della Marca che nel celebre “Dialogo contro i fraticelli”, immaginando uno scontro dialettico tra un cattolico e un fraticello, fa dire a quest’ultimo: “Noi vedemo che li primi fundatori de la fede cristiana fondarno la sancta chiesa in omne sanctita insegnando et ammaestrando cum parole et cum facti, como se devesse desiderare et abracciare le cose celestiale et rinunciare et desprecare le cose terrene. Et non adunando et multiplicaro tanti campi, tante possessione et ricchece, ne le quale et per le quale la mente humana se suffoca et perisce, si como fanno oggedi li prelati ecclesiastici. Noi honoramo Cristo et li suoi apostoli dicendo et tenendo che loro non havero alcuna cosa, ma como homini celestiali cercavano solo le cose celestiale et non le cose terrene como homini terreni” (nn. 64 e 82).
Tali posizioni di radicale fedeltà al Vangelo, secondo la storiografia di tendenza ecclesiastica non vennero suffragate da comportamenti coerenti.
A Cupramontana, in via Bovio, sono tuttora riconoscibili i resti di un antichissimo edificio (probabilmente un serbatoio dell’acquedotto di epoca romana) tradizionalmente chiamato “barlozzo”; secondo la leggenda tale edificio era luogo di notturno convito dei fraticelli per celebrare cerimonie orgiastiche. Giacomo accredita, in capo agli eretici, la nomea di empietà: “Io frate Giacomo, dell’Ordine dei Frati Minori, grido a tutto il mondo e testifico di fronte a Dio che tutti questi fraticelli contro i quali io e frate Giovanni da Capestrano fummo inquisitori, li abbiamo riscontrati che sono scellerati, fornicatori, sodomiti e abili ingannatori di donne, sebbene alla faccia delle persone appariscano uomini santi e celestiali”.
Proprio a Cupramontana, i fraticelli tentarono di assassinare S. Giacomo propinandogli del vino avvelenato durante la Messa: al momento della Consacrazione, tuttavia, la testa di un serpente si disegnò sul fondo del calice. Il francescano provvidenzialmente si avvide del pericolo ed ebbe salva la vita. Uguale sorte non era toccata, venti anni prima, ad Angelo da Massaccio, altro implacabile difensore dell’ortodossia, il quale morì martire per mano dei fraticelli l’8 maggio del 1429.
Di rilevante interesse è lo stralcio di un verbale relativo ad un processo tenutosi a Roma nel 1466 contro alcuni eretici (fonte: codice vaticano latino 4012): tra i fraticelli sottoposti ad inquisizione all’interno di Castel S. Angelo (per lo più mediante utilizzazione di sistemi di tortura) spicca la figura di Niccolò da Massaccio, assurto ai vertici della gerarchia della setta con il titolo di Vescovo.
Sono ben 17 i capi di imputazione che i Commissari dell’Inquisizione (Stefano, Arcivescovo di Milano, Roderigo, Vescovo di Zamora, Niccolò, Vescovo di Lesina e frate Giacomo di Egidio, maestro di Sacro Palazzo) contestano al Vescovo dei fraticelli.
In particolare, vengono chieste spiegazioni in merito all’empio rito del “barilotto” ed alla cerimonia cosiddetta delle “polveri”.
Niccolò da Massaccio conferma il carattere orgiastico della pratica del barilotto: dopo la celebrazione della Messa eretica, spente le luci e pronunciate le parole “Alleluia, alleluia”, ogni fraticello si congiungeva carnalmente con una donna, ritenendo di compiere atto supremo di carità.
Quanto alle “polveri”, pare che tale rito assumesse i connotati dell’infanticidio: “I fraticelli, riuniti in una chiesa, sinagoga o luogo, talvolta accendevano un grande fuoco, ponendosi intorno a circolo, e prendevano un bambino nato tra loro e concepito nei detti adulteri; intorno a quel fuoco si passavano il bambino di mano in mano l’un l’altro fino a che questo rimaneva morto ed essiccato, e quindi ne facevano polvere, la ponevano in un recipiente da vino e al termine della loro perversa messa ne davano da bere ai presenti”.
È da rilevare, peraltro, che tali agghiaccianti descrizioni, estorte mediante metodi coercitivi, sono accolte con riserva dagli storici. Purtroppo il panorama delle fonti è pressoché unilaterale e risulta alquanto problematica una ricostruzione obbiettiva dei fatti.
Resta il fatto che il repertorio delle accuse rivolte ai fraticelli (antropofagia, licenze sessuali e omicidi rituali) costituisce uno stereotipo utilizzato in sede inquisitoria anche contro altre esperienze ereticali.
In epoca recente, lo scrittore cattolico inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) ha espresso un giudizio durissimo in merito all’esperienza dei fraticelli:
“I Fraticelli si dichiararono i veri figli di San Francesco e si sottrassero alle condizioni imposte da Roma, in omaggio a quello che chiamavano ‘il programma completo di Assisi’. In pochissimo tempo, questi bislacchi francescani apparvero feroci come i Flagellanti. Lanciavano violenti anatemi, denunciavano le unioni matrimoniali, minacciavano l’umanità. In nome del più umano fra i santi, dichiaravano guerra al genere umano.
Non fu la persecuzione ad annientarli: alcuni, alla fine, si convertirono e gli altri non realizzarono niente che avrebbe potuto, seppure lontanamente, ricordare il vero San Francesco. Quella gente era formata da mistici, che non erano null’altro che mistici; mistici ma non cattolici, mistici ma non cristiani, mistici ma non uomini.
E deviarono dalla giusta via, perché non vollero ascoltar ragione, nel vero senso della parola”.