Castello di Scalocchio – Città di Castello (PG)

Non si può parlare del castello senza tener conto dell’abbazia in quanto le due strutture erano in perfetta simbiosi infatti l’abbazia e il castello formavano un vero e proprio caposaldo strategico tra il militare e il religioso.

 

Cenni Storici

Per Massa Trabaria si intende l’ampio territorio montano distribuito fra le regioni Marche, Umbria e Toscana, situato oltre l’Appennino fra l’Alpe della Luna a occidente e i comuni di Cagli e Urbino ad oriente, assunse nell’alto medioevo la denominazione di “Massa beati Petri“, formulazione con la quale si indicavano proprietà direttamente gestite dalla Chiesa attraverso un Rettore.
In seguito l’area venne chiamata Massa Trabaria: “Massa“, perché raggruppava molti feudi e castelli con i relativi territori; “Trabaria“, perché in queste terre veniva prodotto legname destinato a Roma per la costruzione di case, basiliche ed altri edifici pubblici, lavorato in travi di varie dimensioni e trasportato a destinazione via Tevere.
Il tributo dovuto dalle popolazioni di questi luoghi consisteva proprio nella fornitura gratuita di legname da cantiere al quale veniva applicato il marchio a fuoco AUF (ad usum fabricae), da cui l’espressione comune, “Auffa“, con il significato di “senza costo“.
Durante l’epoca longobarda in questo territorio impervio vi vennero costruite numerose abbazie.
Nel XIII sec. la Massa Trabaria venne strutturata in Provincia costituita da quattro distretti e Sant’Angelo in Vado assunse il ruolo di captale di questo vasto territorio che nella seconda meta del 300 passo ai Montefeltro duchi di Urbino e più tardi ai Della Rovere.
Con l’estinzione di questa nobile famiglia agli inizi del 600 il dominio passò allo Stato della Chiesa fino all’Unità d’Italia.
L’accesso alla Massa Trabaria per chi proviene dall’Altotevere avviene attraverso il Passo di Bocca Trabaria (1040 m. slm), il Giogo dell’Alpe, ma sono molti i punti di passaggio che possono essere utilizzati.
La distribuzione delle abbazie in questi angoli impervi di montagne appenniniche non è casuale, ma rispondeva ad un preciso compito funzionale, infatti ciascuna abbazia è stata individuata lungo le principali direttrici viarie che attraversano l’Appennino, e a distanze regolari, così da poter essere coperte a piedi nel tempo massimo di una giornata.
Nel nostro caso l’abbazia (e castello) di Scalocchio collocata lungo un linea ideale che congiunge il centro storico di Città di Castello “Tifernum Tiberinum” a quello di Sant’Angelo in Vado “Tifernum Metaurensis” è esattamente a 2/3 del percorso in direzione del centro marchigiano.
Sulle origini del nome “Scalocchio” non vi sono interpretazioni certe, tuttavia esistono località con caratteristiche ambientali simili che portano la stessa denominazione.
II toponimo e da collegare con probabilità al significato di “scala“; la conformazione del terreno e degli strati rocciosi tipici di questa area, inclinati a formare una successione di gradoni fra l’abbazia e i resti del castello confermerebbero questa ipotesi.
Un’altra interpretazione farebbe risalire la parola ad un termine degli antichi Umbri
Scalocchio = SAKE LUKUS che per corruzione del termine SAKE cade la vocale A e rimane SKELUKUS, con il significato di “Bosco sacro dedicato al Dio del patto“.
Il prof. Nino Boriosi, invece, propende per il Sanscrito (celtico) SKAL LUK, con il significato di “Scalare, salire in alto verso una luce splendente“.
Un’altra ipotesi sostenuta dal prof. Ermanno Bianconi fa derivare il termine dalla radice gotico-longobarda SKULK, con il significato di “posto di vedetta“, che si lega bene con il sito a controllo del corso del Cordigliano.
Luogo estraneo alle attuali vie di comunicazione, in passato era un’area di importanza strategica anche sotto l’aspetto politico-militare e infatti in prossimità delle abbazie, compresa quella di Scalocchio situata alla confluenza del torrente Botina e del Candigliano, venne costruito, forse dagli stessi Longobardi di Agilulfo, il castello, che in una carta geografica di A. Zatta del 1783 compare ancora come “Torre dell’Abbadia” per indicare quanto sia stato stretto il legame fra le due strutture.
Il castello forniva protezione all’abbazia e allo stesso tempo i monaci conservavano grano, segale, frumento e tutte le derrate alimentari nel castello dove erano più al sicuro.
All’interno delle mura di Scalocchio esisteva una chiesa dedicata a San Bernardino e fino agli anni sessanta il castello ha conservato il carattere di borgo rurale autonomo e bene organizzato, mentre oggi è ridotto ad un ammasso di rovine.
Il castello di Scalocchio e l’abbazia di San Benedetto, tra le più importanti della Massa Trabaria, occupano una lingua di terra che ricade nel territorio del Comune di Città di Castello, situata in prossimità del confine con le Marche.
La fortezza si erge sulla collina soprastante l’Abbazia di San Benedetto e nel medioevo fu oggetto di aspre contese fra Città di Castello e gli Ubaldini di Apecchio.
Si trattava, infatti, di un’abbazia fortificata per difesa contro i rivali vicini, situata in una posizione strategica per il controllo della viabilità e del territorio.
Nella seconda meta del XIV sec. gli Ubaldini rivendicarono diritti su queste terre per aver dato in sposa Ambrogia di Tanuccio a Brancaleone Guelfucci, un noto personaggio tifernate, che, cacciato dalla città, fece di Scalocchio il suo feudo.
I castellani ripresero il fortilizio dopo la sua morte, nonostante la strenua difesa del figlio Andrea.
Fu una violenta battaglia che portò alla distruzione del castello dove i monaci peraltro custodivano gli oggetti sacri e più preziosi del monastero.
Questo fatto ha contribuito ad alimentare la leggenda su un presunto tesoro che, secondo la tradizione, sarebbe ancora nascosto fra questi ruderi.
Con la distruzione del castello inizia probabilmente anche il declino dell’abbazia, avvenuto nel XV sec. e infatti nella visita apostolica del 1571 Mons. Della Rovere non vi trovò più alcun monaco, soltanto un cappellano mantenutovi dall’abate commendatario di allora.
Nei secoli successivi non si parlerà più dell’abbazia ma il castello resterà oggetto di contese belliche tra Città di Castello Apecchio e la Massa Trabaria.
 

Aspetto

I resti della fortificazione conservano parte della doppia cinta muraria di forma irregolare, necessaria per adattare la costruzione al profilo del terreno scosceso; una situazione dalla quale il castello traeva gran parte del suo potenziale difensivo.
Dall’alto del colle il fortilizio dominava il territorio circostante, mentre l’abbazia era crocevia di flussi umani e commerciali.
Qui convergono strade che risalendo i corsi d’acqua conducono in Valtiberina, ed altre, sul versante orientale, che si dirigono nelle Marche attraverso gli abitati di Mercatello, di Sant’Angelo in Vado e di Apecchio.
 

LEGGENDE

Il Vitello d’oro

La tradizione vuole che nel castello di Scalocchio si trovi un pozzo profondo più di cento metri, dislivello sufficiente per pescare le acque del Candigliano, nelle cui pareti si apre un cunicolo che porta ad un ambiente sotterraneo.
Secondo alcuni li si troverebbe il tesoro dell’abbazia, vale a dire calici, ostensori, pissidi ed altri oggetti di carattere ecclesiastico, mentre altri sostengono che vi sia un vitello d’oro.
Ispezioni condotte nel pozzo, ancora visibile, situato nel torrione, hanno rivelato una conformazione diversa da quella descritta, con pochi metri di strettoia terminanti in una grande cisterna piena d’acqua e pareti prive di aperture.
E’ certa l’esistenza di un altro pozzo, chiuso perché ritenuto pericoloso per la sua profondità, di cui nessuno ricorda l’ubicazione esatta: alcuni dicono che fosse situato presso l’entrata del castello, altri che si trovasse all’interno dell’ultima casa, la più lontana dal torrione.
Se di tesoro si tratta non è certo il Vitello d’oro ma i corredi sacri del vecchio monastero.
La storia del vitello presente un po’ ovunque ha una spiegazione storica: nei primi anni del 1500 con la protezione del papa Alessandro VI, Cesare Borgia (suo figlio) detto “Il Valentino” stava conquistando tutti gli stati dell’Italia centrale, grazie all’aiuto dei più valenti capitani di ventura; fra questi Vitellozzo Vitelli, signore di Città di Castello, che sperava che il Borgia non avrebbe toccato i territori che appartenevano alla sua famiglia da 35 anni.
Ma il 31 dicembre 1502 Vitellozzo fu fatto strangolare a Senigallia e Castello fu occupata dal Valentino che costrinse il Vescovo Giulio Vitelli a rifugiarsi a Venezia.
Il 18 agosto 1503 con la morte del Papa, crollò il dominio dei Borgia ed il Vescovo Giulio rientrò nei suoi possedimenti.
Per celebrare questo avvenimento e far sapere a tutti che Città di Castello era ritornata ai Vitelli, il Vescovo fece fondere un vitello dorato, simbolo della famiglia, e lo mandò con un banditore per tutti gli Stati limitrofi.
Quindi un vitello d’oro aveva attraversato lo Stato di Urbino, le Romagne, parte della Toscana e l’Umbria, lasciando impressa nella mente della gente l’immagine mitica dell’oggetto prezioso per eccellenza.
Così nacque la leggenda e da allora in poi ogni tesoro nascosto viene identificato nel vitello d’oro.
La convinzione popolare è che il vitello d’oro sarebbe ancora nascosto nella cima delle Lucaie fra Scalocchio e Bolina.

Il Mulino misterioso

A monte del castello vicino alle sorgenti del fiume Cordigliano era segnalata l’esistenza di un piccolo mulino nel quale, oltre alle macine tradizionali, sembrava fosse presente una macina che lavorava in piedi, analoga, cioè a quelle che schiacciando le olive producono olio; che ci faceva tale macina se nella zona non esistono ulivi a causa dei rigidi freddi invernali? Che uso aveva?
Sono state avanzate diverse ipotesi: una di queste è che la macina servisse per frantumare il guado che dopo un semplice procedimento lavorativo produceva una polvere per tingere le stoffe di colore indaco-azzurro.
Altra ipotesi è che i frati dell’abbazia avendo possedimenti sparsi anche nelle pianure di Città di Castello trasportassero le olive a questo mulino per prodursi l’olio da soli.
Altra ipotesi, forse la più accreditata, è che i monaci con tale macina verticale producevano olio di noci, pianta invece molto diffusa, e l’olio serviva per alimentare le lampade ad olio e per illuminare la chiesa.
 

Fonti documentative

Collana “Architettura e territorio” N° 8 Istituto Tecnico per Geometri “Ippolito Salvini” di Città di Castello – L’Abbazia di Scalocchio insediamenti benedettini fra Alto Tevere e Massa Trabaria – 2008
 

Mappa

Link coordinate: 43.590736 12.348520

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