Castello di Santo Stefano di Sessanio – L’Aquila (AQ)
Cenni Storici
Il territorio montano circostante fu abitato sin dal Paleolitico Medio da cacciatori che dalla piana di Capestrano si spostavano in altura nei periodi estivi e trovavano riparo Riparo nei Grottoni di Calascio.
Fra i più importanti stanziamenti di superficie, di 100 mila-50 mila anni fa, spicca quello rinvenuto nel demanio alto di Santo Stefano di Sessanio, a quota 1.553 m, in località “Il Prato“, interessata da un piccolo stagno, adagiato in una tipica depressione carsica dove furono rinvenute 3.000 selci, fra cui 220 strumenti e 480 scarti di lavorazione.
Intorno a Santo Stefano sono stati trovate anche tracce dei primi agricoltori del Neolitico, di 6.000 – 5.000 anni fa e successivamente è stata accertata la presenza umana dell’epoca del Rame o dell’Eneolitico, di circa 4.000 mila anni fa, presso il laghetto del paese, dove è stata rinvenuta una particolare ceramica detta a “squame” o di stile Spilamberto, si tratta di popolazioni di allevatori pastori di estrazione egeo-anatolica, pervenute in Italia per successive ondate migratorie, in un periodo contrassegnato da forti siccità.
Fra i reperti più significativi sono un frammento di colino per il latte, cocci di vasetti (capeduncole), uno dei quali con motivo d’incisioni alla greca, ed altri in ceramica nero-lucida, recipienti forse usati per la conservazione del caglio.
Inoltre, come testimonianza della lavorazione della lana, sono presenti due fuseruole.
Con l’età del Ferro, dal primo millennio a.C. fino al VI-V sec. a.C., da un originario ceppo sabino della Conca Aquilana, oggi meglio noto con le scoperte archeologiche di Fossa, si sono andate formando varie etnie, fra le quali quella dei Vestini, che occuperanno, ancora in epoca romana, un vasto territorio dall’attuale Poggio Picenze fino alla foce dell’Aterno.
L’occupazione romana avvenne agli inizi del IV sec. a.C. in seguito alla quale prende le mosse la transumanza organizzata nel Tavoliere pugliese.
Sotto i Romani, Santo Stefano è un cospicuo pagus, attraversato da un importante diverticolo della Claudia Nova tanto da essere provvisto persino di un tempio, come attesta un’iscrizione proveniente dal piano sottostante Santo Stefano, chiamato Sextantio o Sessanta.
Dopo la romanizzazione, l’area ha vissuto un periodo di crisi politica ed economica, a causa della quale lo stesso disegno insediativo ha subito un cambiamento.
Si è così passati da un sistema costituito da ville sparse, congeniale allo sfruttamento agricolo delle poche zone fertili presenti, ad una trama di insediamenti d’altura, caratterizzati da un forte accentramento urbano e da elementi architettonici difensivi.
Il placito del 779 fa riferimento a un’economia di pura sussistenza, ad un paesaggio in cui domina la selva, alla resistenza dei monaci e alle attività di disboscamento.
Momenti centrali nel processo di trasformazione del territorio sono le incursioni saracene (S. Vincenzo al Volturno viene distrutto nell’872) e il nuovo assetto creato dai Normanni.
Una spinta ulteriore viene infatti data da questo popolo, che creò un nuovo disegno paesaggistico sia a livello difensivo, sia a livello economico.
L’origine del nome si presume derivi da una corruzione di “Sextantio“, dal latino “Sextantia“, nome di un pagus Romano su cui fu edificato il paese, distante sei miglia romane da Peltuinum (antica città italica dei Vestini, il cui sito archeologico si trova nei comuni di Prata d’Ansidonia e di San Pio delle Camere, in provincia dell’Aquila).
Questa importante città romana era il crocevia dei traffici che da Roma giungevano sulla costa adriatica, e deve la sua prosperità, sin dai tempi più remoti, alla centralità rispetto ad assi viari strategici come le vie consolari Valeria e Claudia Valeria e, in seguito, alla vicinanza con il Tratturo regio, strada maestra della transumanza di connessione tra L’Aquila e Foggia.
Nel XIII secolo appartenne alla Baronia di Carapelle, divenendo in seguito possedimento dei Piccolomini e quindi, dalla fine del XVI secolo, della potente casata medicea.
E’ sotto la guida di Francesco de’ Medici che il borgo visse il suo periodo di massimo splendore, intorno al commercio della lana “carfagna“, una lana nera di tipo grezzo prevalentemente usata per le uniformi militari e per il saio dei monaci, prodotta a Santo Stefano e lavorata a Firenze.
Le lane grezze, venivano portate a Firenze, mescolate con le lane pregiate del Nord Europa e quindi rivendute come panni Fiorentini.
Nel XVI secolo, con l’arrivo dei Medici, il commercio e la produzione di tessuti subì un profondo rinnovamento e incoraggiamento imprenditoriale.
Santo Stefano era stazione di riposo dei pastori transumanti, che negli stazzi conducevano le pecore, per poi svernare, a settembre, verso le dogane di Foggia chiamata “Regia Dogana della mena delle pecore“.
I pastori che scendevano in Puglia erano obbligati al pagamento di 8 ducati per ogni 100 pecore, in cambio della assegnazione di un pascolo sufficiente, dove poter rimanere fino a primavera inoltrata.
Per rendersi conto della quantità di ovini nelle alture di Santo Stefano basti pensare che nel 1447 alla suddetta Dogana di Puglia, provenienti da Santo Stefano, Calascio, Rocca Calascio e Carapelle furono registrate ben 94.070 pecore.
Nello stesso periodo, la famiglia Medici aveva avuto modo di insediarsi commercialmente a Leonessa, Cittaducale, Montereale e L’Aquila.
L’enorme quantità di lana prodotta veniva spostata dall’Abruzzo alla Toscana attraverso la famosa “Via della Lana”; la lana grezza passando da Rieti, giungeva in Umbria nel passo del Salto del Cieco luogo della Dogana dello Stato Pontificio, attraversava la Flamina risaliva per San Mamiliano e ridiscendeva a Spoleto per poi proseguire attraverso la Valle Umbra verso Firenze.
Nel percorso inverso la lana lavorata a Firenze usciva da Porta La Croce, giungeva in Umbria lungo la via Flaminia entrava nel Ducato di Ferentillo, attraverso il valico di San Mamiliano scendeva poi alla Matterella, dove nei fondaci dei mercanti Fiorentini le lane venivano smistate e indirizzate.
Le merci salivano quindi alla dogana del Salto del Cieco fino a Leonessa e da qui lungo la Valle del Carpineto raggiungevano Posta sulla Salaria; parte di queste merci andava verso Rieti e quindi a Roma, un’altra parte attraverso Rieti, Mezzano, Cassino e Capua a Napoli e l’ultima parte, attraverso Montereale, raggiungeva l’ Aquilano.
Tra l’altro i Medici godevano di privilegi sui dazi alla Dogana del Salto del Cieco, punto di passaggio con il Regno di Napoli, in quanto il Ducato era stato acquisito dai Cybo loro parenti e applicavano una tassazione ridotta a circa un quarto per “soma” rispetto a quella delle lane “Lombarde“, cioè tutte le altre.
La fiorente attività economica derivata dalla pastorizia che fece la ricchezza e la fortuna del paese ebbe la sua interruzione nel XIX secolo con l’Unità d’Italia e la privatizzazione delle terre del Tavoliere delle Puglie; infatti da tale decisione ha termine l’attività millenaria della transumanza e inizia un processo di decadenza del borgo che vede fortemente ridotta la popolazione a causa del fenomeno dell’emigrazione.
Solo dal XXI secolo l’antico borgo, inserito nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga e fra i Borghi più belli d’Italia, sta avendo una rinascita, grazie al turismo culturale e naturalistico, che fornisce una fonte di reddito nuova per i pochi abitanti rimasti.
Aspetto
Il paese appare come un gioiello incastonato tra le verdi montagne a ridosso dell’altipiano di Campo Imperatore in posizione panoramica verso la valle del Tirino.
Il borgo, benché danneggiato dal sisma del 2009, e ancor prima da quello del 1703, è ancora perfettamente conservato, ha la caratteristica del borgo a nido d’aquila che si avvolge con le case attaccate l’una all’altra all’altura della torre centrale di forma cilindrica (crollata nel terremoto dell’Aquila del 2009) la quale si presume esistesse sin dall’epoca normanna, isolata sopra un cocuzzolo, e comunicante con la torre di Rocca Calascio, quella di Castel del Monte e di Castelvecchio Calvisio.
Le abitazioni e i percorsi viari, stretti e angusti, sembrano essersi sviluppati seguendo cerchi concentrici, che hanno come punto di partenza la torre.
Le case presentano un profilo scarpato, per ragioni difensive e a causa della mancanza di spazio, le abitazioni sorgono su più piani (case torri) e, in alcuni casi, sopra percorsi coperti.
Il dominio dei Medici ha lasciato tracce indelebili nelle architetture e gli scalpellini toscani che si sono riversati in quel ricco borgo hanno lasciato portali ad arco con formelle fiorite finemente scolpite, bifore, mensole di balconi e la maggior parte delle finestre in pietra.
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La Porta
La Porta di ingresso alla Piazza Madici si trova a fianco la chiesa medicea e fu restaurata del XVI secolo.
La porta si presenta come un blocco turrito collegato ad un’abitazione, con profondo fornice a sesto acuto, sormontato dallo stemma gentilizio dei Medici con 5 palle e il giglio superiore, posto sotto una caditoia che serviva per contrastare gli assalti gettando delle pietre dai canali.
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Palazzo Mediceo o del Capitano
Il palazzo fu costruito dai Medici come residenza signorile, la costruzione in pietra ha due grandi bastioni, e due finestre bifore di gusto tardo-gotico.
La facciata principale è ornata dall’elegante loggiato rinascimentale della metà del Cinquecento, con un percorso pedonale che immette alle finestre vere e proprie o all’accesso al piano superiore.
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Cappella di Santa Maria delle Grazie o del Carmine
La piccola chiesa, detta anche della Madonna del Carmine, si affaccia sulla piazza principale del borgo, in prossimità della Porta Medicea ed è caratterizzata da una facciata intonacata a coronamento orizzontale sopra cui si staglia una bella cornice in pietra e da un portale di cultura barocca a timpano spezzato.
Il fabbricato originario è stato sopraelevato con una struttura in pietra a vista in cui si apre al centro una piccola finestra circolare.
Nel secolo scorso è stato apposto sul prospetto anche un cartiglio monumentale teso a perpetrare la memoria del soldati di Santo Stefano di Sessanio caduti durante le due guerre mondiali.
L’interno è costituito da un’aula unica con soffitto In plano e da una cappella laterale coperta con una volta a botte lunettata.
L’altare maggiore è dedicato alla Vergine dl Monte Carmelo detta anche Maria del Suffragio, purtroppo nel 2001 sono state rubate alcune opere d’arte, tra cui due quadri raffiguranti la Strage degli innocenti e Sant’Isidoro.
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Chiesa di Santo Stefano Martire
La chiesa si trova fuori le mura, all’ingresso del cimitero.
La chiesa attuale mostra un aspetto della metà del Settecento, in quanto rifatta dopo i danni sismici del 1703, ma leggendo il portale romanico, si presume che esistesse già dal XIII secolo.
La chiesa mostra un impianto rettangolare con facciata quadrata in maniera aquilana, un oculo centrale, in asse col portale inquadrato da una cornice in pietra bianca, con arco a tutto sesto, e lunetta anticamente decorata da un affresco.
Il campanile laterale è una torre quadrata con cuspide piramidale, l’abside è semicircolare.
L’interno, al contrario di quanto possa sembrare, è a tre navate, conservando l’impianto storico, con la navata centrale maggiore, voltata a crociera con profondi costoloni, i pilastri hanno archi a tutto sesto, le navate laterali sono più piccole, e mostrano delle tele settecentesche che ritraggono le storie del martirio di Gesù e Santo Stefano.
L’altare invece è prettamente barocco, decorato da fastosi pennacchi e stucchi, con la statua del santo.
Vi si conserva una statua policroma della Madonna col Bambino e una di Santo Stefano.
LE TERRE DELLA BARONIA E I MEDICI
La denominazione di Terre della Baronia è stata scelta per indicare quella porzione del Gran Sasso meridionale che nel basso Medioevo è appartenuta alla “Baronia di Carapelle” e corrispondeva ad una parte del versante meridionale del Gran Sasso che comprendeva i centri di Castel del Monte, Calascio, S. Stefano di Sessanio, Barisciano, Castelvecchio Calvisio e Carapelle Calvisio.
Il termine è d’origine germanica, da bara o baro, che significava uomo libero o guerriero, e che latinizzato diventò baro, baronis dove il termine indicava un’alta nobiltà.
La Baronia è nominata spesso nei documenti, in particolare nel Chronicon Volturnense.
La prima citazione la rintracciamo nel placito del 2 marzo 779, in cui si narra della visita di Dagari, inviato da Ideprando duca di Spoleto, nella Valle di Trita (l’attuale Valle del Tirino), per dirimere una vertenza tra gli uomini di Carapelle e i monaci di S. Vincenzo al Volturno che nella suddetta valle possedevano la cella di S. Pietro ad Oratorium e numerosi beni.
Dal Catalogus Baronum sappiamo che signore delle terre della Baronia di Carapelle fu Oderisio di Collepietro che, ancora alla metà del XII secolo, possedeva un vasto feudo al di qua e al di là del Gran Sasso.
Tutta la zona, dopo il dominio Svevo e Angioino, venne assegnata nel 1384 a Pietro, Conte di Celano.
Nella seconda metà del Quattrocento entrarono in scena i Piccolomini, che governarono fino al 1579 anno in cui il potere passò nelle mani dei Medici.
Tra il secolo XVI e il XVIII il feudo mediceo di Capestrano, in Abruzzo, rappresentò una scena importante nel teatro politico della complessa successione di questa importante famiglia Toscana, che vede questo piccolo “Stato” fiorentino nello “Stato” ispanico come laboratorio di conflitti tra la casata medicea, a cui apparteneva, il regno di Napoli, nel cui territorio era situato, e il vicino Stato pontificio.
Il feudo di Capestrano comprendeva anche le terre della Baronia di Carapelle, che oggi abbracciano Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Rocca Calascio e Castelvecchio Calvisio, ed era stato acquistato da Francesco de’ Medici, granduca di Toscana, nel giugno del 1579 dall’ultima erede di Alfonso Piccolomini, Costanza Piccolomini d’Aragona, duchessa di Atri, per la somma considerevole di 106.000 ducati la quale fu costretta a vendere il feudo essendosi indebitata per la costruzione di S. Andrea della Valle a Roma, nel 1579.
Nel corso del suo principato Francesco de’ Medici impegnò con convinzione gran parte del suo patrimonio per l’acquisto di immobili legati al borgo e a tutti i possedimenti vicini.
Il granduca percepì da subito il valore di questo territorio di congiunzione tra il regno di Napoli, lo Stato pontificio e la Toscana, referente fondamentale per il commercio della lana, dei pellami e dello zafferano.
Francesco de’ Medici ripose molta importanza in questo marchesato e intendeva donarlo al figlio Antonio, nato dall’unione con Bianca Cappello, in modo da poter assicurare l’erede alla successione al granducato, presentandolo come un bene concreto e con un titolo.
Proprio per questo, dopo la donazione avvenuta il 30 agosto 1580, il granduca si attivò molto con il sovrano di Spagna Filippo II perché il nome del feudo si potesse modificare da marchesato in principato, consentendo al giovane Antonio di succedere al padre granduca, potendo già vantare il titolo di Principe di Capestrano.
Nel 1584 il desiderio di Francesco, di mutare la denominazione del territorio, fu esaudito, sebbene, non essendo mai stata ratificata la modifica, il granduca morì senza che Antonio avesse davvero il diritto di essere Principe e quindi suo successore; questo attirò le mire del fratello Ferdinando.
Come è noto, Francesco de’ Medici e Bianca Cappello morirono in circostanze poco chiare a distanza di poche ore il 25 ottobre 1587, si presume per avvelenamento, forse ad opera del fratello del granduca, Ferdinando, bramoso di conquistare la sovranità della Toscana.
Questi riuscì a privare il giovane Antonio di tutti i possedimenti medicei e soprattutto del titolo di Granduca.
Tuttavia Ferdinando, che si riteneva legittimo successore, avrebbe donato il titolo e le proprietà al giovane nipote se, una volta divenuto maggiorenne, questi fosse divenuto Cavaliere di Malta, cosa che avrebbe comportato, come da consuetudine, la donazione dei possedimenti , tra cui Capestrano, all’Ordine.
Il giovane Antonio accettò, non sapendo che Ferdinando lo aveva raggirato perché aveva fatto approvare una clausola dal papa Clemente VIII secondo la quale i beni, anziché essere donati all’Ordine, sarebbero stati donati a lui medesimo, perciò lo stesso Antonio nominò suo erede lo zio Ferdinando de’ Medici il 28 giugno 1590.
In ogni caso il giovane Antonio non poté sottrarsi all’impegno preso e, quindi, donò, secondo accordo stipulato, tutti i suoi averi allo zio, quando, raggiunta la maggiore età, giurò l’ingresso nell’Ordine di Malta.
L’Ordine, successivamente, girò i suoi possedimenti a Ferdinando, che si era premurato di blindare tale accordo con il papa e il 13 aprile 1594 entrò in possesso anche del feudo di Capestrano, sebbene senza assenso regio: da quel momento i beni di Capestrano si trasmisero solo ai figli cadetti di casa Medici.
La linea maschile di casa Medici si interrompeva il 9 luglio del 1737 con la morte di Gian Gastone, ultimo granduca della famiglia, e con il passaggio del granducato Toscano agli Asburgo-Lorena.
Il principato passò alla sorella Anna Maria Luisa, che lo mantenne fino al 1743, anno in cui si spegneva anch’ella senza eredi.
Capestrano, dunque, si identificava come una insidia in una provincia di confine, una lingua toscana in una terra “spagnola“.
Si configurava come una postazione assai speciale di ascolto delle percezioni politiche, quasi in modo spionistico.
La questione di Capestrano appariva delicata sul piano internazionale, tanto più all’indomani del passaggio del Regno di Napoli dagli Asburgo di Vienna ai Borbone (1734) e nel complicato sfondo della Guerre di successione polacca e austriaca.
La soluzione adottata dal nuovo re di Napoli Carlo di Borbone fu quella di inglobare il principato di Capestrano e la Baronia di Carapelle come beni allodiali, assicurando a se stesso maggiori forme di controllo e tutela sul territorio, creando le condizioni perché si allentassero gli stretti rapporti che, fino a quel momento, avevano legato il feudo abruzzese a Firenze.
Nel 1759 Carlo di Borbone decideva di assumere la corona di re di Spagna e lasciava nelle mani del figlio Ferdinando IV il Regno di Napoli, con tutti i suoi possedimenti, tra cui Capestrano.
Amministrazione Giuridica e Istituzionale
All’interno del principato, livello esecutivo, l’amministrazione ero affidata a un governatore generale, per lo più di provenienza toscana, designato dai Medici tra le personalità di loro fiducia; il governatore soggiornava a Capestrano solitamente per la durata del mandato, sovrintendendo al governo dell’intero territorio.
Altra figura di fondamentale importanza ero quella dell’erario generale, economo del principato, assistito da un computista con compiti di ragioneria: gli erari, un po’ come i governatori, erano cooptati da famiglie vicine ai Medici, ma ben più radicate nel territorio capestranese, come nel caso dei Corsi, che avevano abbandonato la Toscana per trasferirsi definitivamente in Abruzzo ed esercitare questo tipo di mansione.
L’amministrazione della giustizia civile e criminale era invece una prerogativa dei capitani di giustizia, anch’essi di provenienza toscana e indiscussa fedeltà medicea, che esercitavano la loro giurisdizione in tutte le terre del principato.
A Capestrano, nel 1608, veniva scoperta una zecca clandestina che operava per mano di un cittadino locale, Ruggero De Geronimo e di suo cognato, Leonardo Pucciarello di Popoli, che furono arrestati presso il carcere della Regia Udienza e processati a Chieti con l’accusa di fabbricazione di moneta falsa e tosatura di moneta genuina.
Una zecca abusiva che produceva “alcuni recagli” di grane, cianfroni (mezzi ducati d’argento), tornesoni (multipli di tornesi di rame), utilizzando i ritagli d’argento ricavati dalla tosatura di mezzi carlini autentici.
La truffa dello spaccio di moneta falsa fu scoperta grazie alla denuncia fatta da parte di Costantina di Micuccio di Santo Stefano di Sessanio la quale vendette una “lima di grano” per l’ammontante di sette ducati e mezzo.
I due furono condannati il primo alla forca, il secondo mori a causa degli stenti derivatigli dalle torture.
Amministrazione Ecclesiastica
Una peculiarità della giurisdizione ecclesiastica in territorio capestranese era legata al fatto di non essere appannaggio del vescovo di Sulmona, dal momento che Capestrano e le sue chiese, come del resto altre dei paesi limitrofi, sfuggivano al controllo del vescovo e dipendevano dall’abbazia di S. Pietro ad Oratorium la quale rispondeva solo al papa e non al Vescovo di Sulmona.
Gli abati di S. Pietro si muovevano in maniera autonoma rispetto ai vescovi sulmontini in una serie di questioni, quali la nomina e la revoca dei confessori, la scelta dei rettori delle chiese del territorio soggetto, la soluzione dei casi di coscienza.
L’insistenza sul primato dell’abbazia in un elevato numero di questioni ecclesiastiche in territorio capestranese lascia presagire come restasse ferma la volontà di continuare a relegare il vescovo di Sulmona al di fuori dalla giurisdizione ecclesiastica capestranese.
Ciò avvenne in modo ancor più eclatante, quando i Medici giunsero a esercitare un totale controllo sulle cariche badiali con Carlo e Francesco Maria, che furono al contempo principi di Capestrano e abati di S. Pietro ad Oratorium.
Popolazione
Dall’analisi dei dati si evince come il numero complessivo dei fuochi (cioè delle unità familiari) delle località situate nel principato e nella baronia ammontasse a 1430 (da tener presente che ad ogni fuoco corrispondevano circa 5-6 individui).
Le realtà demograficamente più significative erano rispettivamente Castel del Monte (294 fuochi) e Santo Stefano di Sessanio (223 fuochi), seguiti nell’ordine da Ofena (174), Capestrano (160), Castelvecchio Calvisio (157), Calascio (155), Rocca Calascio (155), Bussi (76) e, infine, Carapelle Calvisio (60).
Nonostante fosse il cuore amministrativo, sede degli uffici dello stato mediceo nel Regno, Capestrano non rappresentava dunque il centro più popoloso del principato, con i suoi 160 fuochi, che dovevano corrispondere approssimativamente a un totale di circa ottocento unità.
Analogamente, il centro meno popoloso tre quelli menzionati risultava, Carapelle Calvisio, che pure era il capoluogo dell’omonima baronia.
La modesta componente demografica all’interno del principato, in parte riconducibile alle difficoltà legate al clima, all’economia appenninica e all’assenza di connotazioni urbane, dovette in parte risentire anche dell’elevata mortalità provocata dalla peste del 1656.
Le Famiglie Toscane nella Baronia
La Baronia fu sin da subito occupata da famiglie toscane.
Alcune di esse ebbero nei secoli, effettivamente importanti incarichi di governo, come nel caso evidente dei Corsi e dei Capponi, che peraltro contribuirono alla ridefinizione urbanistica del borgo attraverso la cognizione delle loro dimore.
Né appare un dato trascurabile l’arrivo a Capestrano di abili maestranze lombarde.
In conclusione tra giurisdizioni complesse, eredità in conflitto, diritti ecclesiastici e civili, zecche clandestine e famiglie toscane, Capestrano, piccolo feudo di montagna all’interno del regno di Napoli, ma “Stato mediceo” nella Monarchia spagnola, si configurava come uno straordinario laboratorio di vita e di politica, punto di snodo tra la Via degli Abruzzi e lo Stato Pontificio.
Nel 1760 oltre ai mercanti Acciaioli che facevano sosta a L’Aquila e a Sulmona, si registra anche la presenza di altre famiglie che a vario titolo si erano insediate nelle nuove terre Fiorentine sia per scopi commerciali sia per avviare sedi bancarie; fra queste famiglie si ricordano quelle dei Bardi, dei Peruzzi, degli Scali, degli Alberti, dei Bonaccorsi, degli Strozzi.
Fonti documentative
https://www.caiabruzzo.it/archivio/2797-2018-10-07-le-terre-della-baronia.html
http://itineraabruzzo.it/tour/le-terre-della-baronia/
https://www.academia.edu/28126798/I_Medici_in_terra_dAbruzzo_il_feudo_di_Capestrano_tra_i_secoli_XVI_e_XVII
http://www.centrovisitesantostefanodisessanio.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5&Itemid=121
http://www.gransassolagapark.it/paesi_dettaglio.php?id=66091
https://it.wikipedia.org/wiki/Santo_Stefano_di_Sessanio
http://www.comunesantostefanodisessanio.aq.it/zf/index.php/storia-comune
G. Tomassini – La Badia di San Pietro in Valle Pagani, Catari, Protestanti e… Santi – Edizioni Thyrus