Castello di Morro d’Alba (AN)
Cenni Storici
L’espressione Morro è forse di origine preromana (moor), frequente nell’Italia centrale per indicare rocce e alture. È stato anche sostenuto che possa derivare per onomatopea dal grugno del porco per indicare una sporgenza. Un’al-tra ipotesi è che possa derivare da mora, cippo di confine. La località di Morro avrebbe assunto questa definizione in età medievale, sviluppandosi probabilmente in età e in area longobarda, per poi associarsi al toponimo di Jesi (Morro di Jesi) a causa della dipendenza storica che il castello ha avuto da quella città. Nel 1862 il Comune assumeva invece il nome di Morro d’Alba, sul solco di una moda, sviluppatasi in clima arcadico, che tendeva a ripristinare pretesi toponimi antichi (come successe a Castelleone di Suasa, Ostra Vetere, Ostra e Arcevia negli stessianni), per richiamarsi, ma senza fondamento, a un’antica Alba Picena o Civitalba (o al castello di Albarello che fu trai primi insediamenti fortificati dell’area), di cui trattavano gli antiquari del tempo cercandone una collocazione possibile. Lungo il tracciato della strada che univa Jesi e Senigallia, nell’area chiamata oggi Sant’Amico, si era organizzato, intorno al III sec. a.C., un sistema di aziende agrarie romane. Tra queste una curtis sembra essersi sviluppata nel territorio dell’attuale Morro in età medievale (sec. VI-VIII), nell’area tra il Misa e l’Esino, durante l’influenza longobarda (come sembra attestare anche l’antica devozione del culto di San Michele Arcangelo, ancora oggi protettore del paese), quando questo territorio cominciò a svolgere funzioni più importanti della sola coltivazione agraria. Prima dei Longobardi in quest’area si erano probabilmente insediati nuclei, forse militari, di Goti; una prova della loro presenza potrebbe essere la scoperta proprio a Sant’Amico di un medaglione aureo del VI secolo con l’effige del re Teodorico, ritrovato nel 1894 e poi confluito nella collezione del Museo Nazionale Romano (Palazzo Massimo alle Terme, Roma), commemorativo della sua entrata trionfale in Roma nel 500, adattato a spilla. Medaglione aureo con l’effige di re Teodorico, VI sec., Roma, Museo Nazionale Romano. Quest’area era, infatti, al confine tra due modelli di organizzazione produttiva: quello settentrionale, caratterizzato da una coltivazione relativamente intensiva, e quella più a sud, affine alla cultura longobarda, che prediligeva un’economia più silvo-pastorale. Per difendere lo snodo stradale dagli attacchi bizantini i Longobardi costruirono degli insediamenti fortificati in prossimità dei prospicienti avamposti ravennati (Casa Liscalara e Filetto), uno dei quali si chiamava Albarello, che sorgeva nell’area dell’antica villa sorta nella odierna frazione Sant’Amico. Morro era in questo periodo una curtis, cioè un sistema di organizzazione rurale diffusosi in Italia dopo la conquista longobarda che si appoggiava sulla Fara, cioè il gruppo familiare che vi esercitava il dominio. Lo sviluppo dell’insediamento è da porre in relazione con questa funzione, che va crescendo, anche per la sua posizione strategica. Era per questo motivo che, nel XII sec., la città di Senigallia cercava di conservare la propria autorità su Morro, ma altrettanto faceva Jesi, tanto che la tradizione ricorda un Morro senigalliese e una Morro di Jesi, a dimostrazione dei diversi e continui tentativi di attrazione dell’insediamento da una parte e dall’altra. Fino al X secolo l’area sembra meno coltivata di altre circostanti; appare come un’area con ampi spazi lasciati alla selva, che costituisce una integrazione della produzione agricola, rivelando il motivo per il quale sarebbe stata preferita dai Longobardi, per il tipo di insediamento più rarefatto che essi preferivano. L’espansione del coltivo si muove di pari passo con l’aumento demografico e crea le condizioni per lo sviluppo del cosiddetto incastellamento. Tra XI-XII secolo si ritiene conveniente concentrare infatti (amasare) gli uomini incastelli sui quali cominciano ad esercitarsi forme di giurisdizione connesse all’esercizio della giustizia, all’esazione fiscale e al comando militare. Nel basso medioevo si sviluppa anche una sorta di liberazione dei rapporti colonici; si tende a monetizzare di più i debiti e si consente un affrancamento dalle servitù dei contadini, con vantaggio economico reciproco dei proprietari e dei coloni. Si genera così una riorganizzazione dei regimi contrattuali che favorisce contratti a breve termine rispetto alla rigidità dell’alto medioevo. Sulla base di queste innovazioni si diffonde a Morro un’ampia ricolonizzazione che fa scomparire in gran parte i residui del paesaggio longobardo. Coerentemente con questi processi, l’antica villa Murri dicui parlano le fonti del XII secolo si trasforma nel castrum Murri. Nel XIII secolo sono documentate alcune pievi rurali,ma già un secolo prima si dovrebbe essere verificata la trasformazione della villa in insediamento fortificato,nell’ambito di un sistema di castelli, Morro, Monte SanVito, Orgiolo, Albarello, Belvedere ed altri, nel quale Albarello, dopo un lungo periodo di primato, cominciò a11perdere parte del suo peso entrando definitivamente nel1213 nell’orbita di Jesi. Nel 1213 Jesi impone infatti a Senigallia la cessione dei castelli di Albarello, Morro e Monte San Vito che passano nella sua influenza. Dunque l’organizzazione del borgo degli anni precedenti, fondata sul capitano di castello e la relativa costruzione della cinta muraria, si sviluppò probabilmente per impulso di Senigallia.Agli inizi del Trecento comunque il castello esiste e ne risulta traccia documentaria. Nel 1304-1307 Tano dei Baligani, esponente di una famiglia jesina nemica dei Simonetti, allora al potere, tenta di occuparlo militarmente per farne una testa di ponte dei Malatesta contro Jesi, ma senza riuscirvi. Lo otterrà invece una ventina di anni dopo. In generale, però, il castello di Morro resta nell’area di influenza iesina dei Simonetti, di parte ghibellina, fino a quando, a metà del XIV secolo, il cardinale Albornoz non riesce a riorganizzare il potere papale nella Marca, anche se per poco tempo. Nel 1365 l’Albornoz concedeva comunque a Jesi di ricostruire le mura di Morro e di Monte San Vito, cosa di cui era stato fatto precedentemente divieto, con l’impegno a tenere i due castelli sotto l’obbedienza della Chiesa e impedire che cadessero nel controllo di qualche altro potente riottoso di turno. Nel primo ventennio del XV secolo, e fino al 1460 circa,i castelli di Monte San Vito e di Morro finirono più volte nel controllo dei Malatesta, che operavano per costruire una loro signoria nella Marca centrale, dopo avere sottomesso Senigallia, Corinaldo e Montalboddo (oggi Ostra). Morro tornò nel 1431 sotto la giurisdizione iesina per poi essere occupata da Francesco Sforza nel 1433, fino all’eclisse del suo potere nelle Marche. Pur restando nell’ambito dei possedimenti di Jesi, non mancarono, per più di un secolo, a Morro, tensioni tra la “città regia” e Ancona per il controllo del castello, che spesso finivano sui tavoli delle autorità pontificie. Il castello restò così, dal 1515 fino al 1807, una pertinenza jesina, una delle località cioè mediate subiectae alla sede apostolica (cioè per il tramite di una città), con l’obbligo di presentare il pallio ogni anno, in segno di sottomissione, nella festa di San Settimio. In tutto il castello segue le norme degli statuti di Jesi: il capitano, nominato da Jesi, ha il potere12Veduta delle mura lungo il camminamento della “Scarpa”.13giudiziario e quello esecutivo per sei mesi e si avvale della collaborazione di quattro massari. Il potere di deliberare è invece in mano al Consiglio della comunità, tenuto il più possibile chiuso, tanto da creare frequentemente un suo stallo per la rinuncia continua dei nominati ad assumere la carica e la scarsa base elettorale cui attingere. Nel 1512 il territorio di Morro è di nuovo invaso dagli Anconetani e, nel 1517, nel corso della guerra per la riconquista del Ducato di Urbino, Francesco Maria della Rovere lo saccheggia insieme a Fabriano e Jesi.Dalla metà del XVI secolo, con lo stringersi delle maglie del governo pontificio, gli scontri con gli Anconetani e tra Jesi e Senigallia si diradano. Nel XVI secolo, con lo sviluppo della ricolonizzazione,la popolazione aumenta, anche se con ritmo molto lento. Ma l’importanza del possesso della terra ha anche un risvolto sociale e politico; per entrare nel consiglio cittadino bisogna infatti dimostrare di vivere di rendita da almeno due generazioni. È in questo secolo che si sviluppa la costruzione delle case coloniche sui poderi, dovuta all’obbligo di risiedervi imposto ai contadini, in forme che non sono più solo provvisorie. Ma l’accesso alla proprietà terriera, invece di ampliarsi,tende nel tempo a stringersi nelle mani di pochissimi. A fine XV secolo il 41% dei proprietari possiede al massimo cinque ettari di terra, il 40% ne ha tra cinque e venti ettari,il 19% ne possiede tra i venti e i cento. Nel XVIII secolo dodici grandi proprietà controllano da sole il 73,7% del territorio coltivato. I tentativi di rendere autonomo il borgo da Jesi vengono repressi e, nel tempo, si trasformano in defatiganti questioni legali e fiscali, più volte sottoposte al giudizio delle autorità centrali dello Stato Pontificio, ma senza esito fino alla creazione del Regno d’Italia del 1808. Durante il regno napoleonico Morro acquista la propria indipendenza amministrativa, nel Dipartimento del Metauro, e non la perde dopo il 1816, con la restaurazione, quando Pio VII autorizza con motu proprio l’autonomia del Comune. La libertà dura poco perché, nel 1849, con l’occupazione austriaca delle Marche per conto del papa, tutte le cariche anzianali vengono nominate dal Delegato apostolico e non sono più elettive. Con l’indipendenza si rinnova anche l’ambizione a una tradizione locale e, quando, nel 1861, si insedia il nuovo Sindaco, Antonio Sordi, espressione del nuovo ceto emergente borghese, tra i primi atti vi sarà, l’anno dopo, la sostituzione del nome Morro di Jesi con il neoclassico Morro d’Alba. Torre dell’orologio e Loggiato, sec. XVIII-XIX.
La Scarpa
La cinta muraria di Morro d’Alba che,in origine, si presenta come una tipica fortificazione feudale con alte mura a strapiombo, fossato perimetrale, cortine merlate, e un’unica porta di accesso è emblema di un’architettura difensiva tipicamente medievale molto diffusa su tutto il territorio marchigiano e idonea alla difesa contro le fanterie militari dell’epoca. La prima grande evoluzione della Scarpa, come viene tradizionalmente chiamata, avviene tra XIV e XV secolo quando l’avvento della polvere da sparo rivoluzionerà definitivamente, in tutta Europa, tecniche e strumenti bellici; le nuove armi da fuoco e la potenza dei proiettili che esse lanciano ai danni delle alte mura, rendono inadeguate e fragili le costruzioni difensive che vanno così incontro a considerevoli mutamenti strutturali: le cortine vengono irrobustite da terrapieni non solo come rinforzo al muro esterno, ma anche per permettere l’entrata dimezzi di artiglieria più pesanti, le mura esterne vengono scarpate per facilitare il rimbalzo dei proiettili e mantenere stabilità contro gli attacchi, così come le alte torri, ormai poligonali, si abbassano divenendo poco più alte della cinta muraria per non essere facile bersaglio. Un’autorevole traccia del valore e del grado di progresso raggiunto dalla Scarpa, è rappresentato dal ritrovamento,in una grotta del forte, della più antica bombarda italiana in ferro battuto risalente al XIV secolo e donata dal Comune di Morro d’Alba al Museo Nazionale d’Artiglieria di Torino nel 1862. Essa è stata realizzata in un solo pezzo di ferro battuto, è lunga 78,4 cm e pesa 41 Kg; lanciava palle di pietra di circa 5 Kg. La bombarda è formata da due parti: la parte anteriore, quella destinata a contenere e dirigere la palla, è chiamata tromba, mentre quella posteriore è il mascolo o cannone. Le due parti venivano smontate per il trasporto e ricongiunte al momento dell’utilizzo. L’arma veniva poggiata su un affusto a tavola, chiamato anche letto e sollevata obliquamente verso il bersaglio da colpire. Il rinculo del colpo veniva mediato dai picchetti piantati per terra e assieme ad essa sono venuti alla lucetre mascoli appartenenti allo stesso modello, e un ulteriore mascolo di spingarda, tutti databili XV secolo. Per arrivare all’attuale conformazione si dovrà attendere la fine del XVII secolo, quando, perduta ormai qualsiasi funzionalità difensiva, la maggior parte dei centri marchigiani sviluppano l’abitato secondo due direzioni:19dentro le mura difensive, in un crogiolo di edifici che si raccolgono l’uno contiguo all’altro tra piccoli vicoli irregolari, o appena fuori del perimetro fortificato, lungo gli assi collinari, dando origine a borghi e a contrade. A Morro d’Alba questa evoluzione conosce invece un’altra direzione: le nuove abitazioni vengono costruite sulla cinta muraria appena sopra il vecchio camminamento di ronda che diviene così il fondamento sul quale erigere quei fabbricati che troveranno il loro compimento lungo tutta l’estensione della cinta tra XVII e XVIII. Questa originale espansione ha portato alla maturazione di una singolare micro città, chiusa in un pentagono murato, e completamente autonoma. La Scarpa, con il suo lungo camminamento di ronda, rappresenta oggi un luogo di grande suggestione definito,da un lato, da una lunga serie di finestroni ad arco che si affacciano sulla campagna circostante, e dall’altro, dai muri delle abitazioni con i loro antichi ingressi. Il panorama a tutto tondo spazia dal mare ai monti scandendole consuete passeggiate degli abitanti e dei turisti che la visitano. Questo complesso organismo edilizio racchiude un altro motivo di interesse nelle strutture sotterranee che si trovano al suo interno e che organizzano il cosiddetto”paese sotterraneo”: una fitta concatenazione di grotte,cunicoli, corridoi con dimensioni sempre dissimili e disposti anche su più livelli, nei quali è molto frequente la presenza di pozzi e nicchie. Un impianto architettonico di particolare interesse nel contesto marchigiano per l’estensione che esso raggiunge e per il buon livello costruttivo conseguito, spesso addirittura migliore degli edifici soprastanti. Nei secoli passati questi locali furono utilizzati come cantine, dispense e, nei tratti più prossimi alla strada di ronda perimetrale, come ricovero per gli animali fino al progressivo abbandono e al graduale interramento di essi. All’interno della Scarpa, nella piazza di entrata al Castello, è sistemato il Palazzo Comunale edificato alla fine del XVIII secolo a ridosso della cinta muraria che si chiude sul loggiato che guarda la piazza e sull’alta torre campanaria, entrambi risalenti ai primissimi anni del Novecento. La Sala Consiliare è custode di alcune pregevoli opere d’arte, come la pala di altare dipinta da Claudio Ridolfi (1570-1644), pittore di origine veneta, seguace di Paolo Veronese e del Barocci, che fu indiscusso maestro nell’arte pittorica marchigiana del Seicento. Nella tela di Morro d’Alba, considerata una delle opere di maggiore maturità dell’artista e dipinta attorno al 1620-25, è ritratta L’Incoronazione della Vergine tra i Santi. La pala venne commissionata al Ridolfi da Gabriele Ventura che volle costruire una piccola chiesa in onore di San Francesco proprio dove oggi si erge l’arco di ingresso al castello. Alla demolizione dell’edificio, nel 1773, la tela fu portata nell’altare comunale delle Chiesa di San Gaudenzio e lì rimase fino al 1920 per poi essere staccata, arrotolata su se stessa e deposta nelle soffitte del Palazzo Comunale. Fu rinvenuta alla fine degli anni Settanta del secolo scorso e subito restaurata per poi essere esposta nella sala consiliare del Comune. La pala, che si sviluppa su due registri, presenta l’incoronazione delle Vergine tra Gesù e Dio, mentre al di sotto sono proposti San Francesco (a sinistra) titolare della chiesa per cui la pala era stata commissionata, San Michele Arcangelo (al centro) patrono del paese, e San Giuseppe (a destra) del quale una leggenda ormai perduta voleva che si conservasse un brandello del mantello nella Chiesa di San Gaudenzio. Alle spalle del gruppo si scorgono le figure di San Bonaventura e San Domenico,che probabilmente rendono note le sembianze dei committenti, come era costume dell’epoca. L’altra opera esposta nella Sala Consiliare è il dipinto tardomanierista realizzato tra il 1640 e il 1660 che raffigura San Michele Arcangelo mentre uccide il demonio. L’opera di autore ignoto è di scuola romana e affascina per lo splendido e simbolico contrasto cromatico tra la candida pelle dell’angelo dallo sguardo sereno e sicuro, con la sua armatura scintillante, e le tetre e ombrose tinte con cui viene presentato un Satana urlante che si erge dalle tenebre. Altra tela di pittore locale sconosciuto è L’immacolata Concezione con un’iconografia legata alle litanie lauretane che presenta forme tardomanieristiche periferiche tipicamente marchigiane e rielaborate in maniera semplice e ingenua. Il dipinto presenta, sullo sfondo di un’ipotetica Civitas Dei, al centro, la Vergine, sulla sinistra San Michele Arcangelo con una bilancia e una lancia e, sulla destra, un barbuto San Benedetto che tiene con la mano sinistra un messale e con la destra indica la Madonna. Di particolare pregio è la cornice lignea tardo cinquecentesca, dipinta in finto marmo con numerose scanalature agli angoli e al centro, mentre ai lati presenta eleganti motivi decorativi a voluta e a palmetta che incastonano fiori stilizzati. Nella pagina seguente, San Michele Arcangelo, dipinto del XVII sec. conservato nella Sala Consiliare.