Castello di Cossignano (AP)
Cenni Storici
Cossignano è un piccolo centro di poco più di 1000 abitanti, il cui territorio (poco più di 15 kmq) occupa l’area collinare della dorsale fra le sorgenti del torrente Menocchia e del fiume Tesino. Il centro storico, a pianta ovoidale regolare di m 180×90, è nettamente delimitato dalla cinta muraria (le cui parti più antiche risalgono alla fine del XIII secolo) e sorge, alla quota di 400 m s.l.m., su una collina che domina i colli circostanti, in prossimità dell’incrocio fra la strada provinciale Cuprense e la c.d. Mezzina (che da Ascoli conduce a Fermo). Fra le caratteristiche più notevoli del territorio possono annoverarsi sicuramente i “calanchi” (affioramenti più o meno recenti degli strati di loess argilloso, modellati dagli agenti atmosferici). I manufatti bronzei rinvenuti nelle necropoli delle contrade Colle e Peschiera (fra i quali si segnalano numerosi esemplari di anelloni a sei nodi tipici dell’area cuprense, detti ‘armille’), coevi del copioso materiale fittile recuperato nelle immediate vicinanze dell’abitato attuale, sotto la via Bora, mostrano che già nel VII-VI secolo a.C. si era sviluppato sul sito di Cossignano un fiorente centro di civiltà picena, che poté mantenere la sua autonomia fino al 268 a.C. allorché, insieme con quasi tutta la regione compresa fra il Tronto e l’Esino, esso fu inglobato nel nascente Stato romano, vittorioso sugli Umbri e sui Picenti. La presenza del tracciato viario Ascoli-Fermo, che attraversava il territorio di Cossignano già agl’inizi del II secolo a.C. (come mostrano il miliario di Porchiano e quello assai più tardo di Petritoli) e l’iscrizione funeraria di una Cossinia Fortunata (databile al II secolo d.C.) rafforzano l’ipotesi – già da tempo frequentata dalla tradizione erudita locale – che il nome Cossignano derivi, come tutti i nomi prediali caratterizzati da questa terminazione, dal nomen gentilicium degli antichi possessori di un fundus Cossinianus o praedium Cossinianum, costituito da una ragguardevole frazione dell’ ager Romanus di recente acquisizione, occupata più o meno abusivamente, certamente molto tempo prima della guerra sociale degli anni 90-89, da esponenti di una potente famiglia della nobilitas romana (forse i Cossinii di Tivoli), che popolarono questo loro possesso con centinaia di schiavi impiegati nello sfruttamento sistematico di terreni che allora per la prima volta furono messi a coltura (a questa occupazione dell’ager publicus da parte dei Cossinii deve dunque ricollegarsi la presenza nel territorio del gentilizio Cossinius attestata dall’iscrizione di Cossinia Fortunata, mentre gli abitanti piceni del luogo, divenuti cives Romani sine suffragio già nel 233 o 232 e iscritti alla tribù Velina, appositamente istituita per i nuovi cittadini umbri e picenti, furono per lo più reclutati in massa (specie dopo la riforma dell’esercito avviata da Gaio Mario) nell’imponente apparato militare che Roma utilizzò nella sua espansione imperialistica.
Un caso paradigmatico della vocazione militare di questa antica gente picena è rappresentato dalla carriera di Lucio Afranio, illustre personaggio che a Cossignano (suo luogo di origine) fu onorato con l’erezione di una statua equestre donata dagli abitanti della città spagnola di Valentia (ma la lettura della studiatissima iscrizione di L. Afranio non è del tutto certa) in occasione della sua elezione al consolato (60 a.C.).
Sembra probabile che nell’assetto definitivo dell’Italia augustea, e per tutta l’età imperiale, la grande azienda agricola appartenuta in origine ai Cossinii fosse inserita, almeno in parte, entro i confini di una circoscrizione amministrativa denominata Castellum Martis (nome che indicava l’arce dell’antico insediamento piceno), intesa come frazione più o meno indipendente (vicus o pagus) del territorio della vicina colonia di Cupra Maritima. Questa ipotesi, ora corroborata dall’epigrafe eugubina attestante l’esistenza di un Mars Cuprius, ben spiegherebbe la locuzione Castellum de Marte quod vocatur Cosenianum, che troviamo in un documento del 1039 contenente una donazione del signore longobardo Longino all’abbazia benedettina di Farfa, menzionante numerose proprietà possedute da Longino in quest’angolo del ducato di Spoleto e in particolare in Cossignano, che apparteneva al comitatus fermano, ossia a un gastaldato minore di quel ducato. D’altra parte va notata la crescente influenza esercitata dalla Chiesa (e in particolare dai monaci benedettini dell’abbazia di Farfa, che non a caso annovera fra i suoi abati il cossignanese Enrico, abate dal 1229 al 1234). Si era ipotizzato che un primo riconoscimento dell’autonomia amministrativa e giurisdizionale fosse dovuto ad una concessione del papa Bonifacio VIII, dato che proprio nell’anno della emanazione della constitutio che dal suo incipit è denominata Coelestis Patrisfamilias (1303) venne fusa l’antica campana tubolare della torre del municipio, contrassegnata da uno stemma che presenta tutte le caratteristiche di uno stemma civico. L’ipotesi sembrerebbe rafforzata dalle caratteristiche architettoniche di ciò che resta della cinta muraria e in particolare della Porta di Levante, databile agl’inizi del XIV secolo: ma è certo che la prima concessione di autonomia (affermata de facto – a quel che pare – già da qualche tempo) si può riscontrare già in una lettera di grazia del 21 marzo 1291, data in Orvieto dal pontefice Niccolò IV, con la facoltà “al comune” di eleggere il proprio podestà e gli ufficiali. Dunque, non sembra esservi alcun legame fra la constitutio bonifaciana e la circostanza della fusione della campana, e se ne può concludere che il 1303 fu l’anno in cui il neonato comune, a una dozzina d’anni di distanza dal riconoscimento dell’autonomia, raggranellò le risorse necessarie a compiere la costruzione della torre e la fusione della campana, che impersonava il nuovo status della comunità, scegliendo per la “inaugurazione” una data che si conveniva alla celebrazione del millenario del martirio del patrono San Giorgio, scelto come “avvocato” del commune.
Può considerarsi una costante, nella storia delle vicende del piccolo comune – specie nel corso del XIV secolo – la tendenza ad affrancarsi dalla giurisdizione fermana (che peraltro sarà confermata nell’assetto postunitario, con l’inserimento del territorio cossignanese nel circondario di Fermo), appoggiandosi ora alle nascenti strutture del futuro Stato della Chiesa, ora – più concretamente – alla complicità della vicina Ascoli (mediata talora, a quel che pare, da presenze francescane, naturalmente alleate delle spinte autonomistiche locali). Così, ad esempio, la fedeltà (più o meno “forzata”) di Cossignano al partito “guelfo” comportò un grave rischio nel 1229, allorché il duca di Spoleto Rainaldo, assediato in Ripatransone da un esercito della Santa Sede, cercò di restaurare l’ormai vacillante obbedienza al Sacro Romano Impero, decretando la distruzione dei paesi (fra cui Cossignano) che si erano schierati dalla parte ecclesiastica.
Nelle Constitutiones Aegidianae del 1357 Cossignano appare stabilmente inserita nello Stato della Chiesa, elencata fra le terrae parvae, con 200 fumantes (camini o fuochi, nei quali è ovvio individuare le unità familiari residenti soggette alla tassa focatica), ciò che permette di calcolare con buona approssimazione, per quell’epoca, una consistenza demografica di poco superiore al migliaio di abitanti. Ma l’appartenenza al presidato farfense, sancita dalle stesse Constitutiones, è tutt’altro che pacifica, come mostrano i numerosi episodi di conflitto fra Ascoli e Fermo per il possesso di Cossignano, culminati nel 1388 con la spedizione armata dei Fermani che, non riuscendo a recuperare il castello, distrussero il convento francescano sito sul vicino colle di S. Francesco.
Fra i fatti di rilievo della vita del piccolo ma “antico e nobile” comune le cronache hanno registrato, in seguito, il breve soggiorno a Cossignano nel 1396 del rettore o governatore della Marca, Andrea Tomacelli (che vi pose la sua residenza per qualche mese, facendone dunque, anche se per poco tempo, il capoluogo de facto del distretto da lui governato) ed i per lo più formali assedii di Francesco Sforza nel 1433 e di Alessandro Sforza nel 1443. Nel 1581, con l’apporto di originali elaborazioni di giuristi nativi del luogo (Giovanni Battista Cimicone, Crispoldo Mecozzi, Berardino Massetta e Giovannangelo Boffi) la comunità riformò i propri Statuti, dei quali nel 1584 fu pubblicata un’edizione a stampa, conservata in rarissimi esemplari presso l’Archivio di Stato di Roma e la British Library di Londra.
Personaggi illustri
Lucio Afranio, console nel 60 a.C., valente generale, considerato fra i principali collaboratori di Pompeo Magno.
Enrico da Cossignano, divenuto abate di Farfa nel 1229.
Antonio Nicola Bernabei, medico di fama, autore di una apprezzata Dissertazione delle morti improvise (Roma, 1708).
Carmine Galanti, filologo e latinista, autore di un pregevole commento alla Commedia di Dante (1821-1890).
Caratteristiche architettoniche
Il centro storico, che presenta la consueta architettura in laterizio degli incasati marchigiani, racchiude nel suo breve perimetro alcuni edifici di qualche interesse, che qui di seguito si elencano.
1. La Chiesa parrocchiale di S.Maria Assunta. Sorta nel 1792 sul sito dell’antica chiesa farfense di S.Maria, conserva dipinti su tela di notevole interesse: a) la Madonna del Rosario, olio su tela (m. 3,13 x 2) di arte marattesca del secolo XVII. La Madonna è seduta in trono, col Bambino che offre corone a S.Domenico e a S.Teresa, mentre due sante martiri assistono dal fondo e quattro testine di cherubini compaiono in alto; b) l’Assunzione [sull’altare maggiore], olio su tela (m. 3,45 x 1,95) opera di Nicola Monti da Ascoli (ultimata nel 1795). In alto è raffigurata la Vergine in volo mentre un cherubino spande rose sugli apostoli disposti intorno ad un sarcofago in primo piano; c) S.Giorgio che salva una fanciulla uccidendo il drago, opera dello stesso Monti, datata al 1794.
2. Il Palazzo comunale. L’archivio storico del Comune, con un fondo pergamenaceo di documenti dei secoli XIV-XVI è conservato nella sala consiliare, dove si possono ammirare una tela raffigurante S.Giorgio sceso dal cavallo fra S. Antonio Abate con il capo mitrato e S. Antonio da Padova e, in una teca, la camicia rossa del garibaldino Placido Malavolta. Di qualche interesse la torre campanaria, ora incorporata nel palazzo, che reca un’iscrizione con la data 1586, l’anno in cui per volontà di Sisto V fu costituito il Presidato, con capoluogo a Montalto, includente anche Cossignano. Recenti lavori di restauro hanno reso praticabile la via di accesso alla cella campanaria, dalla quale si domina sul vastissimo panorama dei colli circostanti e dove si può ammirare l’antica campana tubolare fusa nel 1303 (ossia, secondo un’ipotesi erudita, nella ricorrenza del millenario del martirio del patrono S. Giorgio), decorata sul collo dallo stemma del Comune [contornato dalla scritta s(igillum) communis Coseniani] e da un’iscrizione in caratteri gotici recante la data MCCCIII e le iniziali dell’Ave Maria e del motto derivato derivato dall’epitafio di S.Agata: M(entem) T(uam) S(anctam) S(pontaneam) H(onorem) D(eo) E(t) P(atriae) L(iberationem).
3. La Casa all’attuale nr. 61 di via Donna Orgilla, del XV secolo, che conserva la grondaia originaria e resti di due ghiere in laterizio, una delle quali decora un arco a sesto acuto, affiancato dalla caratteristica “porta del morto”, secondo uno schema assai frequente nell’edilizia umbro-toscana, documentato anche nei dintorni di Cossignano, come mostra l’esempio di Monte Vidon Corrado.
4. La Porta di Levante, detta anche “porta del Burgo” o “di S.Giorgio” da un’immagine del santo patrono del paese (ora del tutto sbiadita) dipinta in un apposito riquadro tuttora visibile sulla fronte, è il resto meglio conservato dell’antica cinta muraria del castello (è assai diffusa l’iconografia del santo guerriero a decorazione di porte urbiche (Schwabthor di Freiburg im Breisgau; Porte di S. Giorgio in Firenze e in Verona etc.). La porta (che è l’unica porta castellana attualmente residua) si presenta come una torre portaia a pianta quadrangolare attrezzata per la difesa piombante e ficcante, con le caditoie aperte tra i beccatelli che sostengono, su archetti a sesto lievemente ribassato, lo sporto anticamente fornito di merli guelfi (cioè parallelepipedi). La Porta di Levante, attraversata da via Cimicone, è costitutita da un arco a sesto acuto la cui armilla è decorata da una sobria modanatura. Le caratteristiche architettoniche indicano come epoca di costruzione la prima metà del XIV secolo, e tale ipotesi è rafforzata dalla circostanza che la sistematica fortificazione del paese, così come la fusione della campana della torre civica (datata 1303) sembrano inequivocabilmente ricollegarsi – come si è detto sopra – con la raggiunta autonomia del Comune, già in vero riconosciuta nel 1291 dal pontefice Niccolò IV (Girolamo Masci da Lisciano) e confermata, come tutto lascia credere, in forza della Constitutio detta Coelestis Patrisfamilias, emanata da Bonifacio VIII nel settembre del 1303, ma va notata – come già detto – l’ipotesi secondo la quale la campana fu fusa nella ricorrenza del millenario del martirio di S. Giorgio. La torre portaia sarebbe stata restaurata nel 1433 per disposizione di Francesco Sforza e in quell’occasione, immediatamente sopra l’ogiva, sarebbe stata aperta la feritoia destinata a fungere da cannoniera.
5. La Chiesa dell’Annunziata (già chiesa di S. Paolo). – La parte più antica dell’edificio dovrebbe risalire al 1265, anno in cui il cappellano della chiesa di S. Paolo, sita fuori le mura, ottenne da Rainaldo vescovo di Ascoli di trasportare la sua parrocchia all’interno del castello ed ebbe dallo stesso vescovo la prima pietra della nuova chiesa. In questa nuova chiesa, intitolata a S. Paolo, interveniva solennemente qualche anno dopo (nel 1299) il vescovo ascolano Bongiovanni, per impartire una solenne unzione ai fedeli della plebania di Cossignano. Un riscontro puntuale della presenza di una chiesa di S. Paolo in castro è da considerare la notizia del Wadding, secondo cui l’abate di Farfa nel 1448 accolse nell’oratorio di S. Paolo (ossia nell’edificio che di lì a poco sarebbe stato consacrato all’Annunziata) i frati che avevano dovuto lasciare la primitiva sede, sita sul vicino colle di S. Francesco, devastata dai Fermani nel 1388. Di sicuro si sa solamente che in questa chiesa e nell’annesso convento si ritirarono nel 1448 i frati che avevano dovuto lasciare la primitiva sede – sita sul vicino colle di S. Francesco – devastata dai Fermani nell’anno 1388. Al 1456 (ossia ad appena otto anni dal trasloco) risale la campana più antica della chiesa, che porta la scritta: mcccclvi + + iovanes de francescho me fecit in venecias, mentre nei decenni successivi dovettero essere eseguite le pitture che decorano in più punti l’interno dell’edificio ampliato con l’aggiunta dell’attuale presbiterio, aggettante rispetto alla linea delle mura castellane.
L’Annunziata era ancora in possesso dei padri francescani nel 1554, data per la quale si ricorda un pagamento di decime ai suddetti padri (tre barili di mosto) effettuato da alcuni contadini, e nel 1612, anno in cui viene ricordato, nella relazione della visita ad limina, il conventus fratrum S.cti Francisci conventualium, in quo tamen unus tantum, aut duo fratres commorant.
Il 5 ottobre del 1652 il pontefice Innocenzo X soppresse i conventi minori, e l’Annunziata fu poco dopo affidata (18 aprile 1653) al clero secolare e dotata di tre, e poi di quattro cappellanie. Posteriore a tale data è la costruzione degli altari, che risalgono quasi tutti alla seconda metà del Settecento e agl’inizi dell’Ottocento.
All’edificio di culto, a navata unica senza abside, con annessa una piccola sacrestia, si accede da un rozzo portale in pietra ascolana, incassato nella disadorna superficie della facciata. All’interno l’affresco più antico, in una nicchia sulla parete sinistra vicino all’ingresso (immediatamente a sinistra dell’altare dedicato a S. Maria del Soccorso) raffigura la Madonna col Bambino affiancata da Santi, e si può datare alla seconda metà del XV secolo. Gli altri affreschi sono tutti del secolo successivo (XVI). Alcuni di essi furono riportati alla luce già agli inizi del secolo, altri sono stati scoperti di recente (1970). Vanno segnalati quelli sulla parete a destra di chi entra, immediatamente a destra dell’altare dell’Addolorata, raffiguranti S. Lucia (di scuola crivellesca, forse su cartoni di Pietro Alemanno) e la Madonna in trono con Bambino e S. Rocco. La dedica di quest’ultimo porta la data del 1530 (e il nome del dedicante Laudadeo), mentre un graffito del 1596 tracciato sulla sua superficie attesta che fino a tale data l’affresco fu visibile (in seguito anch’esso fu ricoperto, come tutti gli altri, da più mani di calcina). Di grande interesse sono anche le figure di Santi (specie un S. Pietro, affrescato sulla parete sinistra del presbiterio, all’altezza dell’altare maggiore, riportati alla luce nel 1970, mentre non è stato mai ricoperto il grande affresco nella nicchia sulla parete di fondo, a destra dell’altare maggiore raffigurante una Deposizione dalla Croce, datato 1530 e variamente attribuito a Cola dell’Amatrice o al maestro Giacomo Bonfini da Patrignone, e che reca, nella parte inferiore destra, la minuscola figura di un frate, forse il committente dell’opera (per questo affresco si è notata una strettissima analogia con quelli dell’ex chiesa della Misericordia di Tortoreto in provincia di Teramo).
Il dipinto di maggior pregio conservato nella chiesa dell’Annunziata è la pala d’altare, dipinta a olio su tavola, raffigurante S. Antonio Abate in trono, S. Antonio da Padova e S. Giobbe (m 2,25 × 1,70), opera di Vincenzo Pagani (vissuto fra il 1490 e il 1568). Al centro, su un alto piedistallo marmoreo, è seduto di prospetto S. Antonio Abate, con veste bruna e manto giallo-oro, il pede destro poggiato su un libro chiuso, il capo mitrato, la destra alzata nell’atto di benedire, la sinistra sostenente il pastorale e un libro aperto sulle ginocchia. Dietro di lui quattro angioletti distendono un drappo rosso. Ai suoi piedi è raffigurato a sinistra, di profilo, S. Antonio da Padova in saio grigio, che poggia sul piedistallo un libro aperto e regge in mano un giglio (un “ramo di giglio” si legge curiosamente nella descrizione dell’inventario del Serra); a destra S. Giobbe, in veste di mendico, col turbante sul capo. Negli angeli si accenna l’influenza di Raffaello, che fu molto attiva sul Pagani.
[Testo a cura di Mariano Malavolta]