Abbazia di Farneta – Cortona (AR)

E’ stata una delle più potenti abbazie medievali e quel che vediamo oggi è un frammento di una struttura demolita pezzo a pezzo.

 

Cenni storici

La Valle del Chiana sin dai tempi degli Etruschi e dei Romani è stata sempre una regione agricola e produttiva ma il progressivo interramento della regione, specie in certi periodi, “e forse anche un lento sollevamento tellurico ne determinarono l’impaludamento per cui nel Medioevo divenne tristemente famosa per la malaria e le febbri che la infestavano“.
La valle conobbe almeno quattro bonifiche, la prima compiuta dagli Etruschi, la seconda fatta dai
Romani, la terza per opera dei monaci benedettini e l’ultima la più famosa nel 1338 fatta dal Granducato di Toscana che rivoluzionò il corso del Chiana il quale prima sfociava nel Tevere e poi dopo la bonifica fu convogliato nell’Arno a Nord di Arezzo dove fa la bizzarra voltata; ne parla ironicamente anche Dante (Purgatorio, XIV, 48) schernendo gli aretini sdegnati anche dal fiume che non li tocca scrivendo: “e da lor disdegnosa torce il muso“.
Persino Leonardo da Vinci nel 1502 su interessamento del duca Valentino (Cesare Borgia), ebbe l’incarico di progettare una sistemazione idraulica della regione.
Pare che Leonardo fosse piuttosto scettico sulla possibilità di bonificarla, ma che comunque avrebbe stilato un progetto dettagliato di un vasto lago in Val di Chiana che avrebbe dovuto funzionare da bacino di compenso per mantenere l’acqua costante nell’Arno e collegare con un canale navigabile, per il trasporto delle persone e delle cose, la Toscana al Trasimeno.
Fu in quell’occasione che Leonardo tra il 1502-1503 disegnò la famosa mappa della Valdichiana “a volo d’uccello” in una veduta ideale dall’alto che sembra precorrere le attuali “foto scattate dagli aerei” ora conservata a Londra nella Biblioteca Reale di Windsor.
La presenza benedettina in questa zona va molto indietro nel tempo e il Monastero di Farneta,
deve risalire al 700-800 prima del Mille, fondato dai Conti di Ronzano: Orso, Griffone e Gignello.
Antichi Diplomi, nei quali alcuni possessi vengono contemporaneamente attribuiti ad ambedue i Monasteri, quasi fossero tutt’uno fanno pensare ad un primo nucleo monastico soggetto all’Abbazia di Campoleone o Capolona di Arezzo, e poi, divenuto ricco e potente, si sarebbe sottratto alla Badia madre.
Tale ipotesi potrebbe essere convalidata dall’analogia icnografica e costruttiva tra Farneta e Capolona; infatti le absidi di Farneta ci richiamano l’Abbazia benedettina di Capolona.
Il periodo di splendore dell’Abbazia di Farneta abbraccia quattro secoli, dal 900 a tutto il 1300.
Il primo documento che parla espressamente del monastero è un Diploma o Privilegio di Sant’Enrico II (o Arrigo II) detto il Pio, Imperatore di Baviera indirizzato all’Abate Martino, emesso a Roma nell’anno 1014 quando nella seconda visita in Italia gli fu consegnata la Corona Imperiale; in esso vengono confermate tutte le Chiese, i Castelli e le terre possedute dall’Abbazia di Farneta, nonché le prerogative dell’Abate di Conte Palatino, consultore del Sacro Palazzo Imperiale, la giurisdizione sui Monaci e i vassalli anche nel civile, e varie facoltà tra cui quella di legittimare e far succedere nei testamenti.
In questo documento si fa un elenco dettagliato di un gran numero di Chiese, Monasteri, Ville, Castelli, ed altro esistenti intorno al Mille.
Col Diploma, emesso a Montefiascone, il 23 Ottobre 1196, l’Imperatore Enrico VI conferma i Privilegi concessi all’Abbazia di Fameta dall’Imperatore Corrado, enumerando le Chiese dipendenti e i beni.
Nel Privilegio di Ottone IV Imperatore, dato a Foligno, il 13 Dicembre 1209, all’Abate Giovanni, sono confermati i Privilegi dell’Imperatore Corrado all’Abbazia di Farneta ed è riportato per intero il testo del Diploma di Enrico VI, con l’aggiunta di altri beni.
Seguono altresì le bolle papali fra cui quella di Innocenzo Il, del 1140, inviata all’Abate Martino, quella di Alessandro III, “Tusculanum 1180-81“, all’Abate Giovanni, e il Privilegio di Gregorio IX, dato all’Abate Giuliano, il 13 Dicembre 1238 da Foligno e poi il 17 dal Laterano, a Roma.
Con tali Diplomi quei Papi confermano agli Abati di Farneta e ai loro successori beni e vassalli, prendono sotto la loro protezione apostolica i possessi dell’Abbazia, che in Gregorio IX sono elencati in una lunghissima serie, come in Enrico II, unitamente a molti diritti, tra cui quello delle decime sulla pesca della Chiana.
L’Abbazia di Farneta era svincolata dalla autorità locale, sia ecclesiasticamente che civilmente, per effetto della dipendenza diretta dal Papa, gli abati erano invitati ai Sinodi mentre erano esonerati dal partecipare a quelli diocesani.
I Monaci di Farneta vestivano di nero, erano i cosiddetti “Benedettini neri” precedenti la Riforma di S. Giustina a Padova del 1400.
Vastissimo era il territorio dell’Abbazia di Farneta, con possessi e diritti nelle Diocesi di Arezzo, Città di Castello, Perugia, Assisi, Roma e Chiusi, senza contare Cortona e Città della Pieve, diventate Diocesi più tardi, rispettivamente nel 1325 e 1600; vi si riflette una situazione di grandissima potenza e di grandezza temporale dell’Abbazia che negli Annales Camaldulenses viene definita “Praedives Fametae Monasterium“, ossia “Il ricchissimo Monastero di Fameta” (12 Maggio 1145).
Seppur indipendente nelle Rationes decimarum Italiae il “Monasterium S. Mariae de Farneta” è iscritto nella Diocesi di Arezzo fino al 1325 e dopo in quella di Cortona, ed è da notare che il privilegio dell’esenzione non costituiva una ragione o un titolo per essere liberati dalla decima, estesa pure agli esenti di qualunque grado e condizione; alla suddetta voce di Farneta segue la tassa da pagare che, nei tre elenchi esistenti, risulta di lire 16, soldi 14 e denari 6 per il 1274-75, di lire 10 e soldi 3 per il 1275-76 e di lire 30 per il 1278-79, la quale ultima somma, però, figura non pagata; nel 1302-1303 paga lire 38, soldi 5 e denari 4, somma proporzionalmente importante.
nel Liber Censuum della Chiesa romana, compilato verso il 1150, figura tra le abbazie su cui la S. Sede aveva diritti particolari, ma non pagava censi a Roma e seppur inserita nella Diocesi di Cortona, nelle Visite Pastorali del secolo XIV non si fa menzione di Farneta, sebbene avesse anche cura d’anime ed in numero abbastanza rilevante essendo una delle più ricche e potenti abbazie d’Italia nel Medio Evo.
La chiesa era dedicata alla Vergine Assunta e le cronache del tempo ce la descrivono come un insigne Santuario Mariano, centro di devozione e faro di spiritualità celebre per miracoli era una immagine della Vergine Assunta esposta nella Chiesa.
Fra i più illustri visitatori ricorderemo soltanto un Papa Clemente VII che vi giunse il sei d’Ottobre 1533 e concedere l’indulgenza plenaria due volte l’anno, in occasione delle feste pasquali e dell’Assunta, a chi devotamente avesse visitato quella Chiesa, ed un Imperatore Carlo V che la visitò nell’anno 1525 e lasciò come dono una lampada d’argento del valore di trecento scudi.
Verso la metà del Quattrocento ha inizio per l’Abbazia il periodo della decadenza, Papa Niccolò V, intorno al 1450, riduce l’Abbazia a Commenda, unendole la Chiesa di S. Martino della Vena o la Badiola, al Trasimeno e con la trasformazione dell’Abbazia in Commenda la storia di Farneta si fa travagliata e dolorosa.
Primo Abate Commendatario fu il Cardinale Oddo Colonna, divenuto, poi, Papa Martino V.
Nella metà del Quattrocento l’Abbazia, possedeva ancora, almeno di diritto se non di fatto, una incontrollabile quantità di beni sparsi ovunque, e non solo quelli di Farneta o della Badiola del Trasimeno.
Nel 1508 fu incorporata al Monastero di Finale ligure ma papa Leone X (Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) il 16 Marzo 1514 annullava l’unione dell’Abbazia di Farneta a quella di Finale e trasferiva l’incarico della Commenda a Silvio Passerini suo amico d’infanzia.
Nel 1583 nel monastero si trovano i monaci Olivetani del monastero di Monteoliveto di Rapolano e di questo ordine furono gli ultimi due Priori; l’ultimo fu don Serafino Avignonesi dopodiché nel novembre 1779 i Monaci scomparvero da Farneta.
Il colpo di grazia gli fu dato dal Granduca Pietro Leopoldo I di Lorena intorno al 1780 soppresse il Monastero di Rapolano cui era unita Farneta e con Decreto del 19 Settembre 1783 cedette i residui beni, anche oggi intestati “Abbazia di Farneta” al Capitolo della Cattedrale di Cortona obbligandolo alla manutenzione dei fabbricati e al mantenimento del Parroco “pro tempore“, mediante assegno annuo di 100 scudi toscani “da lire 7 cadauno“.
L’obbligo della manutenzione dei fabbricati venne meno come quello del rimborso delle imposte.
Da questo momento in poi dei monaci non resterà più traccia.
In conseguenza la Chiesa fu rimaneggiata e mutilata ripetutamente e tutto il gruppo monumentale con il chiostro e il campanile, decadde man mano sino all’estrema rovina.
Da un disegno (schizzo prospettico) del 1750 la Chiesa aveva la navata centrale molto lunga che formava la croce latina con il transetto molto sviluppato a forma di “Tau“,”crux commissa“cioè senza il capo; si possono vedere anche il campanile a torre, quadrangolare con monofore e bifore, e il portale del chiostro.
Nei presunti restauri del 1755-1759 fu abbattuta la facciata, accorciata la navata e demolita una parte del Monastero e, dopo la partenza dei Monaci, la Chiesa fu ulteriormente accorciata cosicché l’accorciamento totale fu di 14 metri, quasi la metà dell’intera lunghezza della navata longitudinale; inoltre fu abbassata, modificata all’interno nella parte delle absidi; la torre campanaria fu distrutta dalle fondamenta ai primi del 1800 e le pietre furono murate nella fattoria granducale delle Chianacce e come se non bastasse la lapide del 1100 murata sul campanile fu fatta murare, da Don Giovanni Bartolini, Sacerdote cortonese in un muro della casa d’un contadino, detto “Marcone“, alle Fornaci in essa si legge: “Questo campanile fu iniziato dall’Abate Ado nel 1100“.
Ma la cosa più assurda fu che la cripta oramai abbandonata fu invasa da terra e acqua e proprio mentre entravano in vigore Leggi Leopoldine del 1775 e le successive Napoleoniche sul divieto di seppellire nelle Chiese, a Farneta, si cominciò a seppellire in Chiesa nel 1606 e l’usanza durò fino al 1866, quando fu costruito l’attuale Cimitero comunale; la cosa desta sorpresa in quanto questo non era mai successo prima in quanto precedentemente i morti venivano sepolti all’esterno lateralmente alla chiesa.
In questo sfacelo l’area è stata depredata di qualsiasi cosa ed in particolare i numerosi reperti etruschi e e romani nonché colonne e capitelli che sono finiti in case private, rivendute a musei ed altri di importanza storica considerevole sono spariti nel nulla.
Il restauro di quel che restava fu iniziato dal parroco Sante Felici nel 1940 che la recuperò come la possiamo vedere oggi.
Con Decreto del 30 Gennaio 1974 la chiesa è stata riconfermata Abbazia e fu concesso al Parroco “em>pro tempore” di Farneta il Titolo di abate.
 

Aspetto esterno

La chiesa di impianto romanico è orientata da est a ovest con le absidi rivolte ad Oriente.
All’esterno lateralmente si notano l’attacco sui muri esterni del transetto, a Nord e Sud, i ruderi di fondamenta, che dovevano segnare l’avvio delle navate laterali (o cappelle?), aggiunte e poi sparite.
La facciata è molto slanciata, il portale squadrato sormontato da una finestra arcuata e sul colmo del tetto una croce che poggia sui monti simbolo degli Olivetani; a sinistra sulla parete si eleva il campanile a vela eretto dopo l’abbattimento della precedente torre campanaria nel 1800.
Lateralmente sporgono le pareti del transetto anch’esse dotate di una piccola abside, tutta la struttura forma una croce; nel retro campeggiano le tre belle absidi.
Tutta la parte conventuale che abbracciava un’area molto vasta è completamente sparita e le pietre sono servite per costruire altri edifici.
Accanto alla porta due resti di colonne romane che facevano parte del chiostro di Farneta, quella di destra sul capitello reca incise le seguenti iscrizioni:
HEC. CLAUSTRA. INCHOATA. EST. ANNO. MIXCI.
ADOVEENRICUS. ABBAS. PASTOR. BONUS. SIC. DOMINICUS. ISTAM. SCULPSIT. BASIM.
S
CU
FI
RI
TI

Ovvero “Questo chiostro fu iniziato nel 1191. L’Abate Adoveenrico Buon Pastore. Così Domenico scolpì cotesta base“.
Della iscrizione verticale “S CU FI RI TI” si ignora il significato; forse la persona di cui si parla è lo stesso Abate Ado del campanile, poiché la data pare doversi correggere, studiandola ben bene, da 1191 in “1091 “, cioè nove anni prima del campanile: peraltro, è identico lo stile delle due iscrizioni, con due vocaboli in latino volgare “campanile” e “claustra” (posto come femminile al singolare), inesistenti nel Vocabolario; Il capitello esposto è una copia perché l’originale è conservato nel Museo del Duomo di Firenze.
 

Interno

L’interno è a navata unica e notevolmente ridimensionata nella lunghezza; in un certo periodo dovrebbe aver avuto l’aspetto basilicale con tre navate, ma che sono scomparse in epoca non definita, ma che si possono leggere sia nelle arcate interne alle pareti, sia negli agganci esterni delle stesse pareti, nonchè dalle fondamenta che si notano all’esterno.
L’interno è completamente in pietra arenaria o serena cortonese, sia nel perimetro delle pareti che nelle opere di maggiore impegno, quali l’arco trionfale, a tutto sesto, tra navata e transetto, i catini delle absidi e le stesse volte della cripta.
Il tetto a capanna è sostenuto da capriate a vista.
All’ingresso a destra, si trova l’acquasantiera Cinque-Seicenesca a forma di conchiglia, in origine c’era una Pila Acquasantiera scavata, certamente dai primi Monaci, sulla faccia superiore di un capitello classico corinzio, che poggia su altro capitello rovesciato di ordine composito dalle ricche foglie del corinzio e le graziose volute dell’ionico; la Pila Acquasantiera fu collocata forse fin dal momento della costruzione della Chiesa, giacché l’uso delle Acquasantiere nelle Chiese si era diffuso con la conversione dei Longobardi (sec. VII) ora è custodita nel Museo.
A sinistra in controfacciata troviamo il Fonte Battesimale concesso il 12 Novembre 1711 dal Vescovo di Cortona Monsignor Sebastiano Zucchetti di Pisa è a paraste e architrave in pietra serena, di forma esagonale, reca incisa, su due facce, l’epigrafe: “D. Bern. us Ma.ia Marescotti Prior fecit 1712“, ossia Il Priore Don Bernardo Maria Marescotti fece nell’anno 1712.
Il presbiterio s’innalza di nove gradini rispetto al livello della navata mostrando la soprelevazione sulla cripta e nello stesso troviamo il Ciborio rinascimentale in pietra serena con un vaso eucaristico scolpito in alto.
Il presbiterio contiene tre altari in pietra cortonese, l’altare maggiore al centro fu donato dai soldati di Farneta nel 1942.
Le monofore delle absidi sono con strombatura a sguancì, quella dell’abside centrale ha una vetrata è istoriata con simboli eucaristici quella della facciata con S. Michele Arcangelo.
La pittura-affresco nella parete destra della navata trasversale, sullo sperone d’un tratto di muro ricostruito, ove doveva trovarsi l’absidiola originale, fu scoperta e riportato alla luce dal pittore Giovanni Bassan nel Novembre 1940; rappresenta, la Madonna di Loreto, col Bambino Gesù, con, ai lati, i Santi Rocco e Sebastiano e in alto, reca la data “ANNO DOMINI MDXXVII DIE … FEBRU ..“.
L’affresco è sovrastato da uno stemma sorretto da due Angeli dell’Abate Commendatario Cardinale Silvio Passerini, stemma della seconda maniera e cioè non più col bove eretto sopra i tre monti ma accovacciato su un monte spianato sotto le palle dei Medici, in atto quindi di omaggio al munifico Leone X, che lo aveva blasonato col titolo di Conte e gli aveva concesso di inserire nella sua arma quella dei Medici.
Sotto la scritta che ricorda i devoti che la commissionarono:
QUESTA. PITURA A FATA. [FARE] .. ETRI DE BIASO MAZO [NI?] TOMASO DE VGENV V [I?] TANI E TOMASO DE BIASI A ANTONIO DA SEANO FRA T. TV .ITRI. P(er) SVVA DEVOTIONE
Nel paesaggio sotto rappresentato viene ritratta la Chiesa com’era nel 1527, con due navate laterali, il Castello, il poggio “Melone delle forche” e, sotto, “il Porto” di Farneta con imbarcazioni ed uomini a bordo nella lacustre Val di Chiana, e, sullo sfondo, il Monte Amiata.
Accanto è un affresco minore con S. Lucia e l’iscrizione: “QUESTA PICTURA AFA TA FARE … MONA BAR TLA. .. D.M.V. XXX“, cioè l’anno del Signore 1530.
Il terzo, assai rovinato ed appena leggibile, mostra S. Pietro martire, dell’Ordine dei Domenicani, ucciso il 6 Aprile 1252, a Seveso, da due eretici “Patarini” i quali, poi, pentiti, si fecero Domenicani.
 
 
 

La Cripta

La cripta è spazio architettonico di maggiore rilievo di Farneta, si sviluppa sotto l’intera navata trasversale; ha tre celle due laterali a forma di trifoglio e quella centrale a forma di quadrifoglio e riprende quindi la tradizione dei “sacelli a trifoglio” dei cimiteri paleocristiani.
Icnograficamente si compone, come la Chiesa superiore, di tre absidi divise da muri dove s’internano le nicchie; è coperta da crociere di piccole pietre abilmente raccordate con le volte emisferiche delle absidi e con una volta a botte, limitata al tratto fra i muri di divisione delle absidi su cui si aprono le nicchie e quello di fronte alla tribuna, rientrante in un’absidiola centrale rivolta verso Ovest che forma una croce insieme con le altre tre.
Le colonne che sorreggono le volte, monolitiche e leggermente rastremate, sono di età romana, differenti l’una dall’altra, messe in opera così come erano state trovate, per cui sono affondate chi più chi meno sotto il livello del piano di fondazione, a seconda della loro altezza ed in modo da trovarsi in pari, tra di loro, all’imposta del capitello.
Nella cella di destra ci sono colonne di granito cinereo conosciute come “Granito orientale” non si sa bene da dove provengano ma si suppone che arrivino dall’Egitto, mentre quella di granito rosa è sicuramente egiziana, proveniente da Assuan; furono portate dai romani che spesso vi si rifornivano.
Una di queste colonne è sormontata da un capitello romanico in pietra arenaria con sculture raffiguranti, in una faccia, una strana erma, esattamente una testa di Achelòo e nelle altre facce, un grappolo d’uva, una pigna ed una testa di toro (potenza di Dio); per far combaciare il capitello con la colonna, posero una lastra di piombo, accorgimento usato fino ad oggi nell’ingegneria civile.
Nella cella di mezzo le prime due colonne sono in marmo cipollino, la terza in granito cenerino, la quarta in travertino scanalata, forse ionica, ed i capitelli, romani di ordine toscano-dorico i due di destra in travertino (quello ad Est con segni di sagomature, in un punto), e romanici i rimanenti a sinistra in pietra arenaria.
La terza cella, a Nord, ossia quella di sinistra, ha per sostegno una colonna di marmo cipollino, poggiata sopra una massiccia base romana in travertino di forma circolare, ed è sormontata da un interessante capitello cubico bizantineggiante in pietra con a lato una croce con elementi floreali più graffiti che scolpiti.
 

Fonti documentative

Don Sante Felici – L’Abbazia di Farneta in Val di Chiana – 1994

http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedaca.jsp?sercd=42278

 

Mappa

Link coordinate: 43.226299 11.870910

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